Osvaldo e la tribù delle teste di tramezzino
Quello più piccolo urlava come un matto e lo costrinse a rifugiarsi sotto una porta. Il nascondiglio non era molto agevole né era esente da controindicazioni, ma sul momento non riuscì a trovare niente di meglio. Il cuore correva come un disperato dentro il torace di Osvaldo; andava più veloce di lui, tanto da fargli temere di non riuscire a stargli dietro.
Lui e il suo cuore riuscirono a ricongiungersi e a salvarsi dal primo attacco, anche se lasciarono qualche piccolo brandello di cute sulle asperità del legno vecchio e usurato.
Poi sopraggiunse il silenzio, pesante, opprimente e terrificante peggio delle urla del piccoletto peloso. Senza i rumori non riusciva a identificare la posizione del nemico e tanto meno la sua strategia d’attacco. Perché un secondo attacco non poteva non esserci, era solo questione di tempo.
Ancora silenzio.
Chissà cosa stava progettando il nemico.
Osvaldo si fece sottile come un’acciuga e chiuse gli occhi.
Pregò i suoi dei, i suoi avi e tutti quelli che aveva a portata di memoria.
Poi, finalmente, il silenzio si ruppe e sui cocci cascarono fragorosamente ai suoi piedi. Il piccolo assassino alternava urla e ringhi al suono delle narici che aspiravano l’aria per cogliere l’odore della preda.
Dopo qualche secondo sopraggiunse un altro cacciatore, più silenzioso e infido. Allungò un’appendice pelosa dalla quale spuntarono degli artigli acuminati che il terrorizzato Osvaldo non aveva mai visto nella sua breve vita.
Le armi sfiorarono la sua pelle. Lui ritirò la pancia arrivando molto vicino al rischio di un’implosione. Non era granché in proporzione allo spazio guadagnato, ma anche solo mezzo millimetro, in simili circostanze, poteva fare la differenza tra la vita e la morte.
Vedendo gli artigli andare a vuoto rivolse un pensiero alla scarsità di cibo di quei tempi di carestia e stenti, e ringraziò gli dei per questo.
Il braccio peloso continuava ad andare avanti e indietro, su e giù, alla ricerca del corpo della preda e in questo era incitato dalle urla del piccoletto, il quale, secondo l’interpretazione di Osvaldo, istigava alla violenza, all’omicidio e all’abominio e il grosso essere peloso ubbidiva.
Lui, la preda, la vittima, l’Osvaldo, provò a salire più in alto, sul muro. Ma essendo posizionato di spalle era molto difficile eseguire questa operazione. Non poteva contare sulle straordinarie capacità di adesione delle sue mani su ogni tipo di superficie e con la schiena poteva fare ben poco. Avrebbe dovuto girarsi, ma la situazione in quel momento non lo permetteva. Non aveva lo spazio a disposizione per poterlo fare e, inoltre, un movimento di quel genere, al limite della contorsione, avrebbe offerto la schiena agli artigli dell’assassino sanguinario che cercava di stanarlo.
Pensò e ripensò, ma non giunse a nessuna conclusione.
Forse, con il passare dei minuti senza risultati di rilievo, gli aguzzini avrebbero potuto desistere o dedicarsi a qualcosa di più interessante e gratificante.
Osvaldo riunì tutte le sue cellule cerebrali impaurite e tremolanti e prese la decisione di non mostrare al nemico alcun timore.
Provò a fischiettare per far credere di essere tranquillo e in altri pensieri affaccendato, ma non ci riuscì. La gola era arida come un deserto all’ora di pranzo e a stento passava l’aria, figuriamoci i suoni. La lingua era incollata al palato e non ne voleva sapere di scendere.
“Adesso si stancano e se ne vanno...”
Le corde vocali non rispondevano.
Il meccanismo si era inceppato.
Forse qualche granello di sabbia del deserto...
Ci fu un attimo di silenzio e dal suo nascondiglio Osvaldo cercò di interpretare cosa stesse accadendo dietro la porta.
“Forse se ne sono andati via”
“O forse stanno preparando un nuovo piano per attaccare”
“Maledetti!”
Poi la luce nel piccolo spiraglio tra la porta e il pavimento venne oscurata da un’ombra. Gigantesca e inquietante.
Forse era uno di quegli enormi esseri a due zampe che vivevano in quell’immenso mondo di cemento e oggetti strani.
Loro, i giganti, avevano il potere di decidere sulla vita e la morte degli altri esseri viventi. Erano malvagi e rumorosi e spesso odiavano Osvaldo e quelli come lui. Chissà poi perché.
Osvaldo trattenne quel poco di fiato che gli restava e attese insieme con il suo muro, ruvido e freddo, che il pericolo passasse.
In silenzio, per cercare di carpire anche il più flebile suono.
Dopo qualche lungo e faticoso secondo l’ombra rumorosa sparì e ricomparve la luce. Il pavimento smise di vibrare e subito dopo Osvaldo udì lo scalpitio sul pavimento delle zampe dei suoi aguzzini che, presumibilmente, stavano correndo dietro l’ombra del gigante. Sembravano felici ed eccitati come se avessero vinto alla lotteria. Strillavano e cantavano.
Poi il rumore si allontanò.
Osvaldo si girò su sé stesso con un colpo di reni fulmineo, nonostante l’indolenzimento dovuto alla postura anomala che aveva assunto e all’inattività prolungata.
Scalò la parete ruvida e fredda il più velocemente possibile e, finalmente, portò la sua pelle al sicuro. Lontano dal nemico. Lontano dai giganti.
Tirò un sospiro di sollievo e si liberò dei suoi escrementi.
Poi la curiosità ebbe la meglio sull’istinto di sopravvivenza e decise di andare a vedere cosa stesse facendo il nemico. Doveva capire quali fossero le loro abitudini per poterli evitare e prendere provvedimenti adeguati per non finire nuovamente in trappola.
Si avvicinò al luogo dov’erano riuniti, con cautela e in assoluto silenzio. Senza mai oltrepassare la distanza di sicurezza. A ogni metro guadagnato si fermava per studiare un’adeguata via di fuga qualora fosse stato visto e poi procedeva lentamente verso i rumori festanti dei suoi nemici.
Riuscì a vedere le sagome del gigante e dei suoi infidi tirapiedi dopo un lungo e faticoso viaggio sul soffitto.
Trovò una buona sistemazione dietro una lampada, dove poteva guardare senza essere visto. O almeno così gli pareva.
Si mise comodo e si prese tutto il tempo necessario per studiare le abitudini del nemico. Il posto che aveva trovato era caldo e accogliente.
Avrebbe voluto prendere appunti o registrare un video da analizzare con comodo a mente fredda, magari con l’aiuto di qualche suo simile, ma non possedeva mani adatte alla scrittura e anche se le avesse avute non era in grado di scrivere e, inoltre, non sapeva neanche cosa fosse una videocamera. Forse quei pensieri appartenevano a qualcun altro.
Una volta scacciati via quei pensieri malsani (o forse era solo invidia) si concentrò sul nemico.
Erano quattro.
Un gigante con una grande massa di peli sulla cima. Emetteva continuamente dei suoni estremamente fastidiosi e totalmente incomprensibili e pareva essere il capo branco, dato che gli altri lo ascoltavano in trepidante attesa con il naso all’insù e le code che frullavano l’aria.
Gli altri tre erano un gradino più sotto nella scala gerarchica, anche se a Osvaldo pareva che quello più piccolo e rumoroso, la cui coda non smetteva mai di agitarsi, occupasse un ruolo più importante all’interno della tribù. Infatti il gigante si rivolgeva soprattutto a lui quando dava le sue disposizioni in quell’assurdo codice segreto che gli inferiori apparentemente capivano ma non riuscivano a imitare, neanche lontanamente.
Gli altri due, quelli che occupavano l’ultimo posto nella scala gerarchica, erano grossi e pelosi. Emettevano rumori meno intensi e fastidiosi rispetto al piccoletto e al gigante, ma erano sicuramente i più malvagi e sanguinari. Stavano sempre all’erta a scrutare l’aria e le ombre e i loro occhi ferivano come pugnali. A differenza del piccolo casinista non potevano uscire con il gigante, non potevano condividerne il giaciglio e, in generale, ricevevano un trattamento da esseri inferiori. Anche se loro parevano contenti della loro situazione. Sempre rinchiusi in casa. Ronfavano e si mangiavano l’impossibile. Erano sicuramente dei collaborazionisti, dei mercenari al soldo del gigante, o probabilmente dei plebei reclutati in qualche vicolo malfamato, vendutisi per un tozzo di pane.
“Maledette teste di tramezzino!”
“Degli esseri assolutamente infidi.”
“Devo starne alla larga...”
“Sono capaci di vendere le loro madri per un pezzetto di pane.”
“Dove ho messo la penna?”
Un attimo di distrazione e un piede di Osvaldo andò a vuoto. Senza neanche rendersi conto di cosa stesse succedendo si ritrovò in volo a una velocità incredibile. Senza paracadute e senza un comodo giaciglio su cui atterrare.
Mentre precipitava vide i due collaborazionisti che tendevano le orecchie e rizzavano le code, si ricordò di non aver mai avuto una penna e di quanto fosse duro e doloroso il pavimento.
I due criminali pelosi gli erano già addosso.
Il tonfo sordo sul suolo attirò anche il piccolo di rango superiore.
Poi arrivò il dolore.
Un rivolo di sangue gli colò dalla bocca.
Non fece in tempo a tentare la fuga che, prima una zampa e poi un’altra finirono sotto i denti aguzzi dei due assassini e dopo una frazione di secondo tutte e due le zampe abbandonarono per sempre Osvaldo.
Il sangue schizzò via con violenza, lordando il pavimento e i musi dei due aguzzini.
Gli restavano altre due zampe e ancora qualche centilitro di sangue. L’ottimismo non gli mancava di certo.
“La speranza è l’ultima a dormire...o a morire?”
Osservò le fiamme che divampavano in quei malefici occhi gialli e scivolò sulla pozza del suo sangue, tentando un’ultima, disperata, fuga. Ma, in quel momento, arrivò l’altro, il piccoletto, e quel che rimaneva di Osvaldo si ritrovò tra i suoi denti.
La stanza cominciò a girare, dapprima lentamente, poi la velocità aumentò e il mondo circostante perse i contorni e la definizione dei dettagli si ridusse notevolmente, sino a svanire completamente nella nebbia che, nel frattempo, aveva preso il sopravvento.
Le urla e i rumori divennero sempre più distanti e flebili.
Poi il buio ricoprì ogni cosa.
E Osvaldo raggiunse i suoi avi.
Tratto da "Il libro che non c'è: storie di animali a due o più zampe" - Edizioni Nenne - 2012
"Se hai pazienza lo puoi notare nelle notti d’estate. Si nasconde dietro i vasi, nei balconi o vicino alle finestre, perché ci tiene a riservarsi una via di fuga, non si sa mai come vanno le cose nella vita. Non si fida di nessuno, ma non è colpa sua: solo comportandosi così può garantire la sopravvivenza della sua specie.
Non ucciderlo anche tu..."
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