Questo vecchio racconto l'ho riciclato da un vecchio libro, pubblicato qualche anno fa, Fantasmi Fritti a Cena (https://bochesmalas.blogspot.com/2015/02/pagine-ingiallite.html). In questa occasione ho solo spostato qualche virgola giusto per toglierli un po' di polvere e dargli una mano di vernice (non troppo) fresca e non troppo diversa dal colore originale. L'unica modifica sostanziale riguarda il finale che è assolutamente inedito.
In ogni caso, nonostante il lavoro della squadra delle pulizie e degli imbianchini, il racconto di suo non offre granché. Si può passare ad altro senza alcun problema. Girate pagina tranquillamente...
I raggi del sole trovarono un varco tra le tende. Entrarono nella stanza e andarono a colpire come lame ardenti le palpebre socchiuse. Tom si girò sull’altro fianco, cercando nel cuscino bollente qualche altro istante di sonno. Ritrovò il sentiero dei suoi sogni e lo ripercorse sino in fondo, alla ricerca di qualcosa di piacevole.
Ma dopo una mezzora di silenzio e respiri profondi entrò Tina e con lei la luce accecante del sole e i rumori molesti del mattino.
- Sveglia! - gli urlò con la vocina stridula di bambina che non ne vuole sapere di crescere. - Tra poco è ora di cena!
Tom si stiracchiò sotto il lenzuolo spiegazzato e arrotolato intorno al corpo. Cercò di dire qualcosa alla sorella, ma uno sbadiglio soffocò le parole e gliele fece inghiottire in un boccone. La ragazza uscì dalla stanza, ridacchiando dietro i polpastrelli e, subito dopo, le narici di Tom vennero invase dall’odore di cipolla e pomodoro che ribollivano in cucina, poche stanze più avanti. Erano le undici passate e le attività domestiche erano iniziate da un bel pezzo. Ma lui non aveva fretta, non aveva niente di importante da fare, e anche il nuovo giorno non aveva nulla di interessante da offrire. Anche la nuova pagina del calendario non prometteva altro che la solita lunga e sonnolenta mattinata, per poi passare a un noiosissimo pomeriggio afoso e insignificante.
Tom stava attraversando un periodo non particolarmente entusiasmante. Restava quasi sempre rinchiuso nella sua tana. Trascorreva il tempo a guardare le giornate passare sotto la sua finestra, in attesa della sera quando doveva incontrarsi con Vivienne, la sua ragazza.
- Ventiquattro anni inutili - pensò. - Ventiquattro anni e già mi sento vecchio.
Si alzò a fatica, ancora avvolto nel sudario. Trascinò le membra indolenzite per l’overdose di sonno verso il bagno. Qui rimase immobile per lunghi minuti, cercando di mettere a fuoco la sua faccia nello specchio. Lasciò cadere la sindone ai suoi piedi.
Gli pareva di essere una figura di un quadro di Picasso, con la faccia sottosopra. Dopo aver cercato invano di decifrare i suoi connotati alterati da Morfeo, con uno sforzo non indifferente per i suoi muscoli assopiti, riuscì a rinfrescarsi e a eliminare la fastidiosa patina di sudore dal viso. Finalmente vide e riconobbe la sua immagine riflessa, ma non ne fu troppo soddisfatto: si vedeva gonfio e un po’ abbruttito. E non era colpa di Picasso, forse neanche di Morfeo.
Il primo impatto con il mattino con l’odore del soffritto, decisamente troppo forte e nauseante per il suo organismo appena risorto, non era stato granché.
Peggio ancora fecero le voci e i rumori della casa che gli ronzavano nelle orecchie penetrando come spilli nel cervello, tra le intercapedini dei suoi pensieri pigri.
La madre:
- Hai chiamato tuo fratello?
La sorella:
- Si, si…Il sugo si sta attaccando...
Il nonno:
- Questo ragazzo è la vergogna della famiglia. Alla sua età avevo già un figlio e dieci anni di lavoro alle spalle.
La sorella:
- Non è mica colpa sua.
Il nonno:
- Zitta tu che a vent’anni giochi ancora con le bambole!
Tom ritirò le antenne e si costruì uno schermo protettivo, fischiettando e pensando ad altro e ad altri. Entrò in cucina. Nessuno, a parte la sorella, lo degnò di uno sguardo. Si versò un bicchiere di latte fresco e tagliò un pezzo di crostata alla frutta. Mangiò in fretta, in silenzio, in un ambiente quasi ostile condito con l’aroma del sugo sul fuoco. Ritornò nella sua stanza; passeggiò per alcuni minuti sulle sue mattonelle preferite, dopodiché accese lo stereo per cercare di buttare giù il muro di silenzio che lo circondava.
Il rumore violento delle nocche sul legno della porta fece rientrare il mondo nella sua stanza: era convinto di essere riuscito a lasciarlo al di là della porta, ma dovette rassegnarsi ad accettare l’evidenza dei fatti e ad abbassare il volume. Riprese la lettera tra le mani e ne lesse nuovamente il contenuto. I suoi occhi, la sua mente videro quelle parole, quelle frasi sotto una luce diversa, molto più invitante del solito. Uscì dalla stanza.
- Mamma, ho deciso di accettare quel lavoro.
Gli occhi della madre si illuminarono, ma l’espressione felice del suo volto era offuscata da un alone di malinconia e pentimento.
- Come? - riuscì a dire.
- Hai capito benissimo - rispose lui. - Ho deciso di partire domani mattina.
- Non c’è tutta questa fretta - replicò la madre. - Pensaci bene. Prenditi tutto il tempo che ritieni opportuno.
- Ho ricevuto la lettera già da una settimana - insistette Tom. - Mi sembra più che sufficiente.
La sorella cercò di dire qualcosa però le parole le si spezzarono in gola e gli occhi le si colmarono di lacrime. Tom le sorrise e si rivolse nuovamente alla madre:
- Parliamoci chiaro: è da una settimana che aspettavate questa notizia. Quindi cerchiamo di evitare questa farsa, per favore!
- Bene - disse la madre lisciandosi i capelli. - Rispetteremo la tua decisione.
La sorella corse via singhiozzando e sbatté alle sue spalle tutte le porte che incontrò nel tragitto verso la sua stanza. Tom la seguì con lo sguardo e, una volta al di fuori del suo campo visivo, la seguì per un attimo con l’udito, ripercorrendo a memoria la strada verso la sua camera, poi la sua scrivania con lo specchio, i trucchi e le bambole, il letto con le lenzuola rosa e il suo diario aperto. Infine si voltò verso la madre:
- Parto domani.
La donna abbassò lo sguardo, si strofinò nervosamente le mani e, con voce insolitamente acuta, disse:
- Credimi: noi tutti ti vogliamo bene...non siamo mica felici che tu parta, ma d’altronde qua non ci sono grosse prospettive per il futuro, non ci sono opportunità di lavoro...
- Non preoccuparti mamma, non ti devi giustificare con me.
La donna ritornò alle faccende domestiche senza fretta, con un pizzico di commozione che le si era annidato nel cuore. Tom rientrò in camera sua; si sentiva più leggero, più vivo. Si sedette sul letto e si accese una sigaretta. La sua mente correva lontano verso improbabili situazioni e probabili difficoltà. Alzò nuovamente il volume della musica e stavolta, come aveva previsto, nessuno bussò per fargliela abbassare. Finalmente.
Durante il pranzo tutti erano insolitamente gentili e premurosi nei suoi confronti: anche il padre, che era appena rincasato dal lavoro, gli riservava mille attenzioni e dispensava sorrisi a tutti, contrariamente al suo solito. La sorella, invece, non riusciva proprio ad aprire bocca sia per mangiare, sia per dire qualcosa.
Subito dopo il pranzo, ciabatte nervose e mani frenetiche si spostarono velocemente da una stanza all’altra trasportando indumenti e valigie vuote.
Voci concitate.
Il telefono fece gli straordinari ed iniziò un consistente pellegrinaggio di parenti, amici e vicini di casa. I rumori e la confusione salirono alti e si insinuarono anche dentro le valigie e interferirono anche nei tentativi di inseguire ricordi e di mettere le idee al proprio posto. I trolley famelici ingoiarono il bolo di vesti e chiacchiere, e richiusero le loro fauci con un rutto di soddisfazione.
Noiosissime ovvietà e stupidissime raccomandazioni.
Qualche sigaretta, fumata in fretta tra le pieghe dei discorsi monotoni e sonnecchianti che si stendevano sopra il continuo ciabattare, e si fece notte.
L’indomani la stazione ferroviaria venne invasa da una piccola folla con la sua scia di nervosismo, qualche lacrima, un paio di buste piene di ipocrisia e innumerevoli assurdità.
Parole senza senso rimbombavano nelle orecchie irritate.
- Ma quando diavolo parte questo treno maledetto!
Poi Tom si lasciò cadere sul sedile con grande sollievo. Di tutto ciò che avveniva al di fuori del finestrino polveroso gli rimaneva solo il sapore del rossetto di Vivienne, il resto stava svanendo dietro le sue palpebre chiuse.
Il treno si mise in moto. I binari lo portarono via con gli occhi chiusi e l’eco di voci sempre più lontane che, comunque, ancora interferivano con i pensieri.
Lontano dall’appiccicosissima casa, sicura e tranquilla, lontano dalle sue cose, dagli amici e dalla noia. Verso l’ignoto.
- Chissà quando rivedrò Vivienne...
- Come, scusi? - una voce di donna.
Tom aprì gli occhi e si rese conto di non essere solo: un prete gli era seduto accanto e di fronte aveva una signora obesa con i capelli coloratissimi e una figlia adolescente ancora più grassa e colorata di lei.
- Mi scusi - disse Tom, rivolgendosi alla madre. - Parlavo tra me...
La donna gli lanciò un’occhiata glaciale, incassando la testa tra le pieghe del collo, e riprese il suo giornale tra i grossi anelli che affondavano nelle dita oleose, senza aggiungere una parola. La figlia, invece, gli sorrise con tutti i denti che aveva a disposizione e con un irritante tremolio delle ciglia esageratamente lunghe e grondanti colore.
Tom rivolse lo sguardo verso il finestrino e trattenne a stento un forte senso di nausea. La campagna scorreva sfocata in una scia gialla e verde sullo sfondo del sole che stava salendo inesorabile. Qualche cappello di paglia svettava sulla testa di qualche contadino appoggiato sul manico della zappa. Qualche albero appena abbozzato lasciava la scia dietro il contadino. Il mondo là fuori non aveva contorni né confini.
Il prete, intanto, lanciava occhiate insistenti alla foto di un’attricetta in abiti discinti che faceva capolino da una pagina piegata del giornale della grassona.
La temperatura era in ascesa costante e irrefrenabile come le chiazze di sudore sulle camicette delle due donne. Tom si divertì a seguirne la rapidissima espansione con la conseguente mutazione di colore dei tessuti, ma il divertimento terminò con il sopraggiungere del relativo olezzo. Anche il prete tossì per liberare la gola dalla fastidiosa sensazione di quell’odore acre e pungente. La figlia, comunque, riuscì a battere la madre e a colorare di scuro quasi totalmente la sua camicetta, grazie anche agli sguardi appassionati che rivolgeva a Tom e al relativo ansimare del suo immenso petto.
- Posso aprire il finestrino? - chiese gentilmente il prete.
- No! - rispose la donna con la schiuma bianca gli angoli della bocca. - La corrente fa male alla bambina!
- Solo un po’ - insistette il prete. - Facciamo entrare un filo d’aria.
- No! - ribadì la grassona, accompagnando il suo arrogante diniego con uno spruzzo di saliva degno di una fontana di Versailles.
Il prete perse la pazienza, si levò in piedi e, puntando nervosamente il dito verso le due donne, urlò:
- Se proprio non vuole che si apra il finestrino, cara la mia signora, sollevi il suo grasso culo dal sedile e si vada a lavare, lei e quell’altra palla di lardo che ha accanto!
La donna si sollevò dal laghetto oleoso che si era formato sulla pelle del sedile e, completamente paonazza in volto, diede un colpo di borsetta sui denti del religioso, il quale si portò immediatamente una mano sulla protesi frantumata e reagì con un robusto calcio sullo stinco della donna. La figlia si precipitò in soccorso della madre accasciata, che urlava come una bestia al macello, e cercò di afferrare una gamba del prete, riuscendo solo a strappargli un brandello del calzino in quanto l’uomo abbandonò in tutta fretta lo scompartimento.
La figlia, dopo innumerevoli sforzi, riuscì a raccogliere da terra la madre inferocita. In quel momento entrò un controllore in inequivocabile stato di alterazione, probabilmente da abuso d’alcol. La donna lo colpì con uno schiaffo pensando si trattasse del prete e l’uomo già malfermo sulle gambe tremolanti cascò per terra con un tonfo sordo.
- Mi scusi! - gli urlò la donna dopo essersi ripresa. - Credevo fosse...
L’uomo si alzò a fatica e se ne andò senza capire un granché, borbottando al di sotto del berretto storto.
Tom cercò di mascherare l’irresistibile voglia di ridere con alcuni colpi di tosse e si concentrò sul panorama offerto dal suo pezzetto di finestrino.
Il treno stava rallentando.
“Non gettate alcun oggetto dai finestrini.”
STAZIONE Iª
Le due donne obese scesero dal treno, spingendosi e tirandosi a vicenda disperatamente, mentre un uomo vestito di nero correva a gambe levate poco più avanti.
Tom sbadigliò e stiracchiò le membra intorpidite, mentre due nuovi compagni di viaggio varcavano la soglia del suo scompartimento: una ragazza e un ragazzo.
Salutarono e si sedettero.
Dopo alcuni istanti entrò anche un giovane variopinto munito di scarponi.
Salutò e si sedette.
Tom risbadigliò con tutta la mandibola e strizzò per bene i canali lacrimali.
Il treno si mosse lentamente.
Un paio di scossoni e prese velocità trotterellando sui binari.
Tom lanciò lo sguardo verso i nuovi compagni di viaggio e ne riportò indietro le immagini da archiviare nel suo disco fisso. La fauna era mutata drasticamente rispetto a poco prima; al posto delle due grassone e dei loro fiumi di sudore vi era una coppietta con tanto di ragazza dalle lunghe gambe abbronzate e scollatura generosa. Al posto del prete c’era parcheggiato un giovane con i capelli verdi, anfibi, cintura e bracciali borchiati e cuffie sulle orecchie.
La coppia si scambiava effusioni, ignorando completamente il prossimo. I movimenti delle natiche della ragazza facevano risalire sistematicamente la gonna sino alla vita e, ogni tanto, una tetta faceva capolino dalla scollatura.
Tom si voltò nuovamente verso il finestrino, mentre gemiti e risa aumentavano progressivamente. Il ragazzo che aveva a fianco sembrava fregarsene di tutto e di tutti e proseguiva imperterrito ad ascoltarsi la sua musica, con gli occhi chiusi, un sorriso ebete stampato sul volto e il piede che teneva il tempo. A Tom, che non poteva udire bene i suoni trasmessi nelle orecchie del vicino, pareva che quel piede avesse lo stesso ritmo del treno. Lo fissò per un attimo. Tuttavia ritenne che la cosa non fosse sufficientemente interessante e allora distolse lo sguardo dallo scarpone per rivolgerlo all’orologio, abbastanza spazientito. Il viaggio era lungo.
La coppia proseguiva con escursioni in profondità degni di uno speleologo, e risa e scherzi.
Tom si voltò di scatto verso i due amanti giusto in tempo per ricevere le mutandine della ragazza sul viso. Si alzò un po’ divertito e un po’ infastidito per la spregiudicatezza dei due, i quali non si erano neanche accorti di dove erano volate le mutande, ed uscì dallo scompartimento. Si affacciò dal finestrino e si accese una sigaretta. Non era consentito fare sia una cosa che l’altra ma, d’altronde, se quei due si potevano accoppiare impunemente in uno scompartimento di seconda classe perché lui si doveva mettere dei problemi per un paio di tirate.
Si voltò verso il suo sedile e vide che il giovane punk se ne era impossessato completamente e sonnecchiava soddisfatto. La ragazza, intanto, aveva recuperato le mutande e cercava di ricomporsi quando Tom rientrò un po’ imbarazzato, ma i due non lo degnarono neanche di uno sguardo, sino a quando lui scostò i piedi del ragazzo addormentato. A quel punto realizzarono di non essere soli e lo salutarono come se lo stessero vedendo per la prima volta.
- Fa caldo, eh? - disse il giovane sudatissimo rivolgendosi a Tom, il quale rispose stancamente con un cenno del capo.
Lei tirò giù la gonna aiutandosi con un paio di movimenti dei fianchi e sorrise cercando di nascondere un lieve imbarazzo tra le goccioline di sudore.
I capelli verdi russavano.
- Anche tu in vacanza? - riattaccò il giovane ansimante.
- No - cercò di tagliare corto Tom. - Sono in viaggio per lavoro.
Un velo di noia calò dall’alto, adagiandosi sul pulviscolo e la pelle appiccicosa. I pensieri di Tom ebbero libero sfogo dentro la scatola cranica e corsero liberi per diversi minuti.
STAZIONE IIª
Il treno fermo.
L’odore della similpelle dei sedili, vecchi e consunti.
L’odore della pelle degli esseri umani.
- Bibite fresche! Aranciata, Coca Cola! Panini! Patatine!
- Il treno proveniente da B. viaggia con dieci minuti di ritardo...
Bambini schiamazzanti si rincorrevano sui marciapiedi inseguiti dalle urla isteriche delle madri in menopausa anticipata. Gli occhi di Tom seguivano quelle palline da tennis, confondendole con le immagini dei cartelloni pubblicitari e con i ricordi della stazione precedente.
Due valigie entrarono prepotentemente nello scompartimento seguite da una donna di mezza età, magra e munita di occhiali. Si sedette accanto alla coppia senza preoccuparsi di sistemare le valigie e aprì la sua rivista farcita di pettegolezzi e di celebrità senza veli.
Il treno si mise in moto con un fischio, mentre gli occhi vagavano dal volto imperscrutabile della donna alle valigie ingombranti che avevano violentato lo spazio, senza pietà per le gambe degli altri passeggeri.
Una voce si levò dalla coppietta, tra un’effusione e l’altra:
- Scusi signora, non crede che sia il caso di spostare questi bauli?
- A me non danno nessun fastidio - rispose la donna con tono acidulo.
Il ragazzo si sollevò sui gomiti:
- Ma a noi si!
La ragazza si inserì nel discorso scostando con un dito il giornale dalla faccia della nuova arrivata:
- Signora quassù c’è molto spazio. Perché...
- Fate come volete! - la interruppe la donna.
Tom si alzò sbuffando e dopo aver lanciato un’occhiataccia alla donna tirò su una valigia e la sistemò sull’apposita mensola, imitato subito dopo dall’altro ragazzo che si occupò della seconda valigia scagliandola con violenza accanto alla prima. La donna seguì le operazioni da sopra gli occhiali e si rituffò nella lettura con un ghigno di soddisfazione sulle labbra rosse.
- Certo che nei treni s’incontra un sacco di gente strana - commentò la ragazza, mentre accavallava le gambe con visione di mutande compresa nel prezzo.
La signora non batté ciglio e per non essere da meno rispose al fuoco con un movimento di anche non meno audace. Tom fissò le gambe della nuova arrivata attraverso quello spacco un po’ sopra le righe e constatò che non avevano niente da invidiare a quelle della ragazza che aveva accanto, solo pochi centimetri in meno e qualche ora di sole in meno.
La ragazza lasciò perdere la sfida e si tuffò tra le braccia dell’amante.
Tom si rivolse nuovamente verso il finestrino e la campagna soleggiata.
Capelli verdi continuava a russare, incurante di tutto ciò che gli accadeva intorno. E forse anche nell’intero pianeta.
- Mi prenda la valigia blu - disse la donna, rivolgendosi a Tom.
- Come? - chiese lui sorpreso.
- Mi serve una rivista che si trova dentro la valigia blu! - ribatté la donna.
- Se la prenda pure! - esclamò Tom.
- Ah no, LEI ha messo la valigia blu su e, ovviamente, LEI la deve prendere - insistette la donna senza degnarlo di un’occhiata, mentre Carolina di Monaco veniva stropicciata dalle sottili dita smaltate.
Tom, per un attimo, vide quei bei occhi scuri schizzare fuori dalle orbite tra frammenti di vetro e cascate di sangue, poi urlò:
- Ma non dica sciocchezze! Se vuole la valigia sollevi le chiappe dal sedile e se la prenda!
La donna sorrise e si alzò in piedi con un sospiro. Era decisamente bella, molto di più di quanto poteva sembrare ad un primo sguardo. Si voltò con un altro sospiro e tirò giù la valigia con inaspettata forza.
Tom ingoiò una sorsata di saliva e cercò di dominare la tachicardia innescata dalla collera, ma anche dalle trasparenze della camicetta della donna e dal suo spacco ammiccante, che gli fece l’occhiolino una volta che la sua proprietaria si sedette con un’altra stupida rivista tra le mani. Tom distolse lo sguardo per un momento e lei abbassò gli occhiali sul naso con un tocco leggero del dito medio, poi lo fissò con uno sguardo acuminato come un pugnale, costringendolo a voltarsi e disse:
- Grazie.
Lui si trovò decisamente in imbarazzo e rivolse lo sguardo altrove, inseguendo due gabbiani che volavano alti sulle colline.
STAZIONE IIIª
La massa di ferro e carne sudata si arrestò dopo un paio di scossoni di assestamento e aprì le sue branchie per incamerare un po’ d’aria e una piccola folla di umani nervosi e blasfemi a causa del ritardo.
La coppietta guadagnò l’uscita accompagnata dagli sbuffi della ragazza e dalle sue occhiate maligne verso la donna immersa nella carta intrisa di pettegolezzi e innumerevoli vip sconosciuti ai più.
Capelli verdi russava.
Tom lottava contro la sonnolenza.
Due ragazzini litigavano sotto il suo finestrino.
Una vecchia rattoppata frugava stancamente nel cestino della spazzatura.
Il ferro stridette pesantemente come se stesse per andare di corpo, come se stesse per liberarsi di parte del suo fastidioso contenuto vociante.
Le branchie si richiusero e la cappa d’afa si adagiò sui passeggeri, avvinghiandosi alle membra come un’amante insaziabile.
I ragazzini si stavano picchiando ferocemente.
I ragazzini svanirono dietro un pilastro di mattoni anneriti.
La stazione grigia e fumosa svanì dietro una curva.
La donna batté le ciglia e una galleria tetra e maleodorante inghiottì il suo sorriso.
Odore di ferro, di fumo, di gas.
Le pietre scure scorrevano davanti ai suoi occhi e poi d’improvviso la luce, accecante e bollente.
Il sole era seduto sulle sue ginocchia.
La donna si spostò accanto al finestrino, proprio di fronte a Tom. Tirò fuori il tavolino pieghevole e vi poggiò sopra la rivista e i gomiti. Distese le gambe costringendo Tom a ritirare le sue perché il contatto con le caviglie nude gli trasmetteva sensazioni imbarazzanti.
L’eccitazione cresceva dentro i suoi pantaloni, ma cercò di far finta di niente e si lasciò cadere sul poggiatesta, con gli occhi socchiusi. Un respiro profondo e la situazione ritornò sotto controllo. Le scarpe incrociate sotto il sedile.
Il sonno conquistava terreno.
Un vuoto, poi il suo piede toccò nuovamente la pelle liscia della donna e si svegliò di sobbalzo con il cuore in gola.
La donna gli lanciò uno sguardo fugace.
Un bagliore.
Le labbra socchiuse.
Tom cercò nuove distrazioni negli anfratti più remoti della sua testa:
- Vivienne...
Il treno sonnecchiava sui binari incandescenti.
- Ma quanto cazzo manca?
Le gambe davanti a lui luccicarono sotto i raggi del sole, poi si alzarono e con movimenti rapidi e nervosi si allontanarono.
Tom sollevò lo sguardo e la donna gli lanciò un sorriso da sopra le spalle, mentre tirava giù le valigie.
- Io sono arrivata - disse. - Ciao.
Si allontanò.
Tom seguì i movimenti delle sue natiche sino a quando non svanirono in fondo al corridoio.
STAZIONE IVª
Capelli verdi continuava a russare, inconsapevole del mondo che aveva intorno.
- Chissà dove diavolo doveva scendere questo qui - pensò Tom.
Poi il suo sguardo si posò sulla rivista sul tavolino. La prese e fece per alzarsi per raggiungere la donna e restituirle il giornale, ma desistette in quanto l’ammasso di ferraglia e lamiera si era già rimesso in moto.
- Se l’è dimenticata - pensò a voce alta.
La girò tra le mani.
Un numero di telefono.
- Chiamami...
Si appisolò soddisfatto, dondolato dai movimenti della ferraglia. Nessuno entrò a turbare i suoi pensieri sino a quando:
- Biglietti prego.
Tom trasalì.
- Come?...Ah, si ecco...
Porse il biglietto al controllore cercando di tenere aperti gli occhi gonfi, soprattutto il sinistro che gli doleva a causa della posizione che aveva assunto: lo aveva schiacciato un po’ troppo sul poggiatesta. Si guardò intorno. Capelli verdi era sparito nel nulla. Erano rimasti solo lui e il controllore e la rivista di pettegolezzi che aveva tra le mani, con le sue promesse.
- Grazie, buongiorno.
Gli occhi si richiusero e la guancia ricadde sul poggiatesta bollente.
Poi il silenzio, il buio, sotto il sole cocente.
I secondi, i minuti e le ore vennero trascinati lentamente dal pesante convoglio.
Un sospiro.
Un colpo di tosse.
Le braccia intorno al petto.
Stirò le gambe intorpidite.
Uno sbadiglio.
Ancora silenzio.
Scivolò verso la parte del poggiatesta più fresco. La similpelle che lo ricopriva era invecchiata con dosi massicce di sudore, forfora, umori assortiti e liquidi e liquami di ogni genere. Il tessuto era impregnato da tutti questi ricordi, da tante, troppe, storie. Bisognava accontentarsi.
Tom aprì gli occhi, cercando di inghiottire le poche gocce di saliva che vagavano nel deserto delle sue fauci secche.
Si alzò a fatica, indolenzito e sudato in ogni remoto angolo della pelle. Si affacciò al finestrino, una volta resosi conto che il convoglio era fermo.
CAPOLINEA
Il treno si era fermato nel bel mezzo del nulla. In un deserto incolore. Ovunque volgesse lo sguardo poteva vedere solo un’immensa distesa di terra grigia e alcune rade piante, nerastre e scheletriche, che si levavano verso l’alto come mani artritiche. Nessuna traccia di una stazione. Nessuna traccia di presenza umana. Nessuna traccia di vita.
Silenzio.
Niente case.
Niente asfalto né cemento.
Si stropicciò gli occhi velati dal sonno e cercò di mettere a fuoco il panorama. Scagliò lo sguardo lontano, verso l’orizzonte, ma non incontrò nessun ostacolo, nessun segno di vita riconducibile al suo mondo, alle soglie del terzo millennio. Solo arbusti neri e secchi aggrovigliati in figure intricate, sofferenti, forse senza vita. Solo colline grigie e polverose in un deserto desolato e silenzioso, e ancora nessun segno di umanità.
Andò in giro per il treno. Niente. Non c’era nessuno.
Si affacciò dall’altra parte. Niente. Dai vetri polverosi non si vedeva altro che la stessa polvere. Dentro e fuori.
Provò a chiamare, dapprima con voce pacata, quasi con timore e un pizzico di vergogna, poi con maggior decisione, sino a urlare disperatamente, ma niente, nessuno rispose.
Prese le borse e scese dal treno, con il cuore in agitazione e le idee confuse.
- Dove cazzo sono finito?
La terra, o meglio il materiale che si trovava sotto i suoi piedi, era soffice e instabile, tanto che lui affondava sino alle caviglie a ogni passo. Era faticoso muoversi come se stesse camminando sopra un’infinita distesa di dune di sabbia. Si piegò e raccolse un pugno di quel materiale grigio. Aveva l’aspetto di polvere di metallo, ma la sua consistenza sui polpastrelli era molto soffice e non rifletteva la luce neanche dopo aver fatto roteare i minuscoli granelli. Li lasciò scivolare tra le dita, seguendo con lo sguardo il loro ricongiungimento con il resto del materiale al suolo. Non lasciarono alcuna traccia sulla sua pelle, né macchie, né polvere, né odore.
- Sembra metallo. Un qualche tipo di strano metallo.
Si caricò una borsa sulle spalle e il trolley alla sua sinistra. Si voltò verso il treno con un groppo alla gola. Davanti ai suoi occhi quella sabbia vorace inghiottiva i binari, come sospinta da un vento che non c’era, come un’onda in un maremoto senz’acqua. La ruggine saliva dalle rotaie per aggredire ferocemente le carrozze, con un’espansione rapida ed inesorabile. Quella strana terra famelica stava digerendo il treno come se fosse un prelibato bocconcino. Una distesa di sabbia metallica che si nutriva di altro metallo. Praticamente era un atto di cannibalismo.
- Adesso mi sveglio...
Si diede un pizzicotto.
Dolore.
Appurò di essere desto.
I passi lenti e faticosi. I bagagli pesanti e ingombranti affondavano nelle dune grigie.
L’aria ferma e pesante quasi bisognasse ingoiarla e masticarla e non respirarla. Ma non c’era caldo, non c’era umido, non c’era nulla.
Affrontò la collina più bassa e gli parve di scorgere un sentiero tra i cadaveri delle piante. Si fermò davanti ad una di queste e cercò di spezzarne un ramoscello. Non vi riuscì, anche le presunte piante sembravano di metallo, dure e apparentemente prive di vita. Indistruttibili. Le dita di Tom, nonostante gli sforzi, non ottennero neanche una piccola scalfittura sulla superficie del più esile di quei rami.
- Cos’è questo posto...l’inferno?
Si voltò verso il treno. La sabbia l’aveva quasi completamente inghiottito. L’aveva ricoperto sino all’altezza dei finestrini. Tom, per un attimo, pensò che forse ci poteva essere ancora qualcuno dentro e si pentì di essere uscito così in fretta, tuttavia il pensiero si estinse subito dopo nel silenzio assoluto. Senza odore, senza vento, né suoni di qualsiasi genere.
Riprese il cammino sul suo sentiero ipotetico alla ricerca di qualcosa, di qualsiasi cosa. Il suo mondo si stava allontanando e la cose non gli piaceva affatto.
Dopo una decina di lunghissimi e faticosi minuti si fermò e prese la bottiglia d’acqua dalla borsa, ne bevve un lungo sorso anche se non avvertiva lo stimolo della sete. Ma appena il liquido, scivolando lungo l ‘esofago, stava per raggiungere lo stomaco fu assalito da una forte nausea e rigettò tutto con spasmi dolorosissimi. Gli caddero le borse per terra. Si piegò in due sotto i colpi delle violente contrazioni. Gli occhi colmi di lacrime e la gola in fiamme. Le gocce d’acqua e succhi gastrici formavano delle bolle sul terreno impermeabile e restavano là, tra i suoi piedi, ad ondeggiare come vetro fuso modellato da un sapiente soffiatore.
Appena ripresosi dai conati raccolse le borse con il timore che facessero la stessa fine del treno. Difatti di una di esse rimase solo il manico sfilacciato. I suoi timori erano fondati, anche se avrebbe preferito sbagliare le previsioni. Barcollò in preda ad un attacco di panico. Riuscì a restare in equilibrio per puro caso grazie ad un fortunoso colpo di reni dettato dalla paura. Poi, istintivamente, tirò su i piedi, uno alla volta, per accertarsi che non avessero fatto la stessa fine del trolley, del treno e di ogni forma di vita. Fortunatamente erano ancora lì, al loro posto, integri e stanchi dentro le scarpe leggere comprate al mercatino qualche giorno prima di partire. Controllò l’altra borsa. Almeno quella era al suo posto e la sorte volle che fosse quella che, tra le altre cose, conteneva pure un po’ di cibo. Rimise dentro la bottiglia d’acqua che, prima o poi, pensò, avrebbe potuto riutilizzare, se solo il suo apparato digerente glielo avesse concesso.
Si voltò ancora una volta, con la speranza che, forse, il sogno potesse anche giungere a una conclusione, in qualche modo. Invece no, il treno non c’era più. Il mare grigio lo aveva inghiottito definitivamente e con esso si portò via anche una buona fetta di speranze.
Procedette nel grigio a testa bassa. A ogni faticoso passo perdeva un briciolo di fiducia. La schiena si incurvava sotto i colpi inesorabili della disperazione e della stanchezza.
Nel nulla.
Decise di fermarsi, esausto e demoralizzato.
Al diavolo la sabbia famelica. Al diavolo la borsa.
Si sedette per terra e cercò di ingoiare un po’ di quell’aria pastosa.
Levò gli occhi al cielo e, in quel momento si rese conto che non aveva ancora fatto caso a quell’assurdo soffitto che stava sulla sua testa. Nessuna stella, né nuvole, né un sole o una luna; solo un’infinita distesa bianco-pallida priva di sfumature e di qualsiasi altra cosa. Piatta, senza profondità, come l’approssimativo disegno di un bambino daltonico che si fosse completamente scordato di abbozzare il sole e qualche nuvola. Eppure i bambini almeno uno straccio di sole lo mettono sempre, magari con una faccina sorridente da ebete, ma ce lo mettono. Questo invece doveva essere particolarmente stronzo.
- Dove cazzo è finito il sole?
Dentro un disegno.
O dentro un incubo?
Richiuse gli occhi e il torpore riprese possesso delle sue membra. Poggiò la testa sulle ginocchia serrate. Le dita andarono a verificare una strana sensazione di fastidio sulla fronte: avvertiva una certa tensione nella cute in mezzo alle sopracciglia. I polpastrelli si accertarono che si trattava di un gonfiore; un grosso ponfo teso e duro. Lo grattò. Si aprì una piccola crepa proprio sulla cima, ma senza dolore, come se il tessuto non fosse più animato e i recettori nervosi fossero spenti. La ferita si aprì con un leggero crepitio come un fiore in primavera che sboccia, e ne uscì una piccola sfera grigia che rimbalzò e rotolò lontano. L’idea, il sogno era infine uscito dal cervello o forse era la larva o l’uovo di qualche strano animale, un parassita o qualcosa del genere. In ogni caso era andato.
Riaprì gli occhi, li roteò tutt’intorno, spaesato e insicuro. Fischiettò una melodia di Mozart che la sua memoria aveva remixato, a uso e consumo delle circostanze, e si alzò. Diede una controllatina al proprio corpo e ai vestiti: era tutto a posto, non avevano fatto la stessa fine del treno e del trolley. Cercò l’altra borsa. Guardò dappertutto ma non c’era più, anche quella era verosimilmente finita in pasto alla sabbia. Si grattò la testa colma di confusione e dubbi. Gli erano rimasti solo i documenti e i soldi. Se ne accertò senza guardare e li contò sommariamente.
- Ma cosa diavolo me ne faccio dei soldi in questo posto di merda?
Rimise il portafoglio in tasca.
- L’acqua - pensò. - Forse non sono sparito perché proprio come il vomito contengo acqua, liquidi, e forse non sono digeribile per questa terra ingorda. Ma i vestiti allora?
- Forse sono umidi di sudore - si rispose.
Non era molto convinto dei suoi pensieri, però proseguì senza spremere ulteriormente le meningi. Camminò alleggerito da ogni peso; le braccia penzolanti lungo i fianchi; i polpacci carichi di acido lattico; la testa vuota e lo sguardo per terra. Ammesso che ci fosse una terra.
Si grattò la fronte ricordandosi vagamente di un qualcosa che gli dava fastidio proprio li in mezzo, solo pochi minuti prima. Probabilmente era stato solo un sogno e se ne era andato via senza lasciare traccia alcuna. La fronte era liscia e madida di sudore come prima sul treno, nella vita reale.
La collina si adagiava gradualmente su una vallata e riposava, cullata dalla voce melodiosa del silenzio.
Un’ombra.
- Ehi! - urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
Provò a correre dietro a quella scia, a quella sensazione di movimento. Una figura grigia catturata con la coda dell’occhio. Forse una voce, una nota dissonante nell’armonia del silenzio. Una traccia di colore lievemente più scuro delle dune era ancora impressa nella sua retina.
L’ombra che fugge.
- Ehi!
Niente.
Provò a cercarne le impronte nella sabbia e si rese conto che nulla lasciava tracce al suolo, anche i suoi passi sparivano in una frazione di secondo, inghiottite dai finissimi granelli grigi che, come abili chirurghi plastici, coprivano e ricucivano le ferite del suolo senza lasciare alcuna cicatrice.
- Ehi...
Forse un’allucinazione, forse la stanchezza. Eppure avvertiva una strana sensazione, come se fosse consapevole di essere nei pensieri di qualche altro essere vivente. In quel momento preciso, in quel posto. Si sentiva controllato, spiato. Anche dentro, come se stessero rovistando tra i suoi pensieri, tra i suoi ricordi più intimi e si divertissero a metterli sottosopra.
Si massaggiò le tempie doloranti e camminò dritto, verso l’orizzonte.
Altre ombre sfuggivano al suo sguardo. Erano troppo veloci e pareva, inoltre, che riuscissero a prevedere i suoi movimenti con largo anticipo.
- Ehi!?!
Il deserto.
Il silenzio.
Sotto il cielo bianco e gli sguardi delle ombre.
Continuò per la sua strada, senza conoscere la meta e ignorando il panico che cresceva dentro di sé e invadeva subdolamente tutto l’organismo, alterando le funzioni vitali e distruggendo le certezze che erano state ben coltivate nella sua mente nel corso degli anni. Tutto da rifare, tutto da ricostruire. In un ambiente assurdo dove le insidie si nascondevano dietro ogni lentissimo secondo che scorreva sospinto dalla tachicardia.
Si scoprì a pensare a qualcuno che armeggiava dentro la sua testa, ma riuscì ad allontanare subito quell’idea malsana e cercò di concentrarsi sull’orizzonte per distrarsi dai tormenti interni. C’era qualcosa là in fondo, e doveva raggiungerla a qualsiasi costo: un qualcosa di indefinito, forse solo una tonalità di grigio lievemente più chiara, un fugace bagliore. Forse un cazzo di niente.
- Si, laggiù c’è qualcosa.
I passi si susseguirono uno dietro l’altro, con un graduale incremento del ritmo, nonostante la spossatezza che gli intorpidiva le membra. Affrontò l’immensa distesa grigia, inospitale e minacciosa, ma anche talmente uniforme e invariabile da risultare noiosa, nonostante l’inquietudine che trasmetteva in ogni istante, a ogni passo.
Per un attimo gli parve di non toccare il suolo, di sfiorarlo appena, come se fosse su un cuscinetto d’aria.
- Volo?
I recettori periferici gli trasmettevano notizie confuse e incomprensibili, che risalivano lungo le strade intasate del suo sistema nervoso, disperdendosi in frammenti senza collegamento, come puzzle diversi mescolati tra loro da una qualche manina dispettosa.
- Dev’essere sempre quel bambino stronzo…
Planò sulla valle, tra le dune grigie, per diversi minuti sino a quando quella sensazione svanì, soppiantata dalle immagini che giungevano dalla vista.
- C’è qualcosa laggiù...
L’immagine andava facendosi sempre più chiara e definita, e il cervello sviluppava velocemente quei negativi vitali.
- Una montagna… Si, pietra, roccia...
Nel bianco accecante di quel cielo morto si stagliava una vetta improbabile. Una montagna, maestosa quanto irreale.
Tom incrementò il ritmo e il vigore delle falcate, stimolato da qualcosa di attinente alla vita, ai ricordi delle cellule cerebrali. Il respiro affannoso ne scandiva il tempo.
La montagna si faceva sempre più vicina, con una velocità fuori da ogni logica come se i piedi di Tom viaggiassero ben oltre il limite delle capacità umane. Tutto ciò era poco credibile, tuttavia la mente di Tom aveva smesso di seguire ragionamenti logici da un bel pezzo. Si era lasciata inghiottire dal vortice degli avvenimenti, non lasciando nessuna via chiusa purché lo conducesse verso qualcosa, verso un fine. Anche improbabile o assurdo che fosse.
Le note di un ritornello di una vecchia canzone rimbombavano dentro le sue orecchie, accompagnate dal ritmico pulsare delle tempie.
C’era qualcos’altro oltre la montagna, delle cose nere altissime, probabilmente dei pali, oppure erano alberi della stessa incomprensibile materia di quegli arbusti neri che giacevano ai suoi piedi, avviluppati in intricate contorsioni. Più si avvicinava alla meta e più si allontanava da una possibile comprensione di ciò che aveva davanti agli occhi.
A cosa stava andando incontro?
L’allarme si accese e rimbombò tra le pareti accaldate della sua scatola cranica.
Pericolo…pericolo...fermarsi immediatamente...
L’attrazione però era irresistibile; i muscoli ricevevano segnali confusi e contrastanti; il sistema nervoso era saturo di messaggi e punti interrogativi. Se da una parte nutriva seri dubbi riguardo alla sua incolumità, dall’altra era certo di non avere scelta. Doveva rischiare e andare avanti. A tutti i costi.
Mentre era intento a raccogliere le idee, una strana sensazione di vertigine gli salì lentamente lungo la schiena, arrampicandosi su un tappeto di sudore gelido. Di fronte a lui le dune di polvere grigia iniziarono a girare vorticosamente e il cielo si mise sottosopra. Svenne.
...Aprì gli occhi. Era buio. Gradualmente, ma con estrema lentezza, riprese possesso del suo corpo e della sua posizione e cercò di muovere gli arti intirizziti. C’era umido e il suolo era duro e freddo. Il suo respiro echeggiava sinistramente nelle tenebre, sovrapponendosi ad altri deboli suoni che la coscienza stordita ancora non riusciva a distinguere. Provò ad alzarsi ma sbatté la testa contro qualcosa di duro. Si massaggiò il cuoio capelluto per cercare di lenire il dolore, mentre la pelle gli trasmetteva la sensazione di bagnato lungo tutta la superficie corporea. Si tastò i vestiti e constatò che erano completamente inzuppati d’acqua. Si strofinò le braccia e le spalle per ottenere un po’ di calore, per cercare di ripristinare un minimo di circolazione sanguigna superficiale. Gli occhi continuavano a non distinguere assolutamente nulla, oltre la barriera impenetrabile del buio, tanto che per un attimo gli venne il dubbio di averli ancora. Se ne accertò toccandoseli con le dita. Una volta appurato che fossero al loro posto, si sedette per terra e cercò di concentrarsi per cercare di capire cosa stesse succedendo. Riuscì a distinguere i suoni che prima avvertiva come un indistinto marasma in sottofondo: era il suo cuore. Questo batteva pesantemente nel petto, rimbombando nell’ambiente come un ritmico martellare su una superficie di pietra ricoperta da un panno di cotone e nelle sue pause, tra un colpo e l’altro, s’inserivano delle gocce che, cadendo dall’alto, andavano ad alimentare una pozza d’acqua non molto distante dai suoi piedi. Con le mani cercò di scoprire dimensioni ed eventuali pericoli del suo nuovo incubo. I suoi sensi erano amplificati dal buio e dalla tensione. Nel contempo la nebbia nella sua mente andava diradandosi con il passare del tempo, cancellando ogni traccia di torpore. Iniziò a tastare il terreno per escludere eventuali pozzi o buche che potevano compromettere la sua esistenza. Usò come punto di riferimento la pozza d’acqua gelida che si trovava a circa mezzo metro dal suo corpo. Il suolo era abbastanza uniforme, come se fosse stato levigato a mo’ di pavimentazione, e presentava solo qualche gradino di pochi centimetri e qualche lieve depressione, dove si raccoglieva l’acqua. Dalla pozza che si trovava alla sua sinistra alla parete di roccia alla sua destra contò poco meno di otto palmi, ovvero circa due metri. Una volta accertatosi dell’assenza di pericoli individuabili con il tatto, cercò di misurare la grotta anche in altezza e profondità e ne venne fuori un quadro confuso: doveva avere una forma grossolanamente esagonale al suolo, che si estendeva nella sua diagonale più lunga per circa cinque metri; la volta era ancora più irregolare e indecifrabile, nel suo punto più basso, ovvero una stalattite acuminatissima, arrivava a non più di sessanta-settanta centimetri dal suolo, i punti più alti, invece, non erano raggiungibili. Ma la cosa più inquietante era l’apparente assenza di vie d’uscita.
Il panico lo aggredì vigliaccamente alle spalle, strisciando tra i peli irti, e gli stritolò la mente uccidendo ad una ad una tutte le sue pur esigue speranze. Si lasciò cadere su una poltrona d’acqua, incurante del freddo e di ogni altra cosa. Niente aveva più un senso e il buio che lo circondava iniziò ad entrare dentro, attraversandogli l’anima disarmata.
Ogni tanto qualche flebile bagliore illuminava la sua mente.
- Forse mi hanno calato dall’alto con una corda o una scala. O forse sono caduto in una buca…L’uscita deve essere lassù. Indubbiamente.
Ma ogni qualvolta gli pareva di aver trovato l’interruttore la luce si spegneva sistematicamente.
In ogni occasione in cui sembrava riuscire ad afferrare una qualche soluzione, e conseguentemente, si alzava e cercava di metterla in atto, il tutto si risolveva in un inutile dispendio di energia e sudore.
Dopo una manciata di minuti, però, la sua corteccia cerebrale venne occupata da un altro pensiero che soppiantò gli altri: si rese conto di non avvertire né fame né, tantomeno, sete, eppure erano trascorse molte ore dall’ultima volta che aveva ingerito qualcosa e anche da quando aveva vomitato dopo aver provato a bere. Non se ne preoccupò più di tanto. L’assenza di stimoli da parte del suo stomaco non era la priorità in quel frangente, anche perché si trovava nell’impossibilità di poterli soddisfare, non avendo più le borse. Inoltre, gli parve decisamente fuori luogo pensare ad alimentarsi quando non vedeva la minima speranza di salvezza davanti a sé. Nel buio assoluto.
- Sono morto.
Il suo organismo bolliva dentro l’involucro gelido. La temperatura corporea stava salendo velocemente accompagnata da brividi e tremori.
La sua mente iniziò a vacillare sotto i colpi impetuosi dei picchi della febbre. Un’immagine vaga riportò in superficie il ricordo dell’acqua verde di un fiume che scorreva placidamente tra le rocce bianche e i fiori d’oleandro. Le goccioline d’acqua che brillavano sulle gambe della sua ragazza e le libellule rosse e verdi che svolazzavano intorno. Poi, ancora, cinque cagnolini bianchi che giocavano nei pressi di un cespuglio e due occhi che brillavano sul sedile reclinato dell’automobile.
I germi galoppavano dentro le sue vene. Gli dolevano anche le ossa e i muscoli andavano perdendo la loro funzionalità. Si sentiva una polpetta scotta che galleggiava in una pozzanghera. La sua testa stava friggendo. Gli parve di essere sul punto di perdere coscienza nuovamente, quando, percepì la sensazione di essere sfiorato da qualcosa di diverso dalla roccia umida, forse addirittura da qualcosa di vivo. Si voltò verso il buio alle sue spalle e i suoi sensi, pur alterati dalla febbre, gli trasmisero inequivocabilmente la presenza di un essere vivente tra le maglie delle tenebre.
Qualcosa lo toccò di nuovo sul volto. Era qualcosa di tiepido, qualcosa a sangue caldo, probabilmente una mano, una mano umana.
- Chi è? - cercò di urlare con il poco fiato che gli restava in gola.
Nessuno rispose. E niente si mosse.
Poi la febbre prese il sopravvento, costringendolo ad adagiarsi al suolo e facendogli dimenticare la strana presenza. Si strinse nelle spalle, abbracciandosi il petto in tumulto. Serrò le gambe per cercare di trattenere il calore e esporre la minor quantità possibile di carne all’umido tagliente della grotta. Si lasciò cullare dal suono ruvido del suo respiro. Per un attimo gli parve di avere un peso sulla fronte, subito dopo gli sembrò di avere qualcosa in bocca, ma le sensazioni svanirono sotto la lenta ed inesorabile calata delle palpebre. Si addormentò convinto di non risvegliarsi più, ma dopo un po’, un raggio di luce si incuneò tra le ciglia appiccicaticce e lo portò fuori dal labirinto dei suoi sogni.
- Luce - pensò. - Vivo, sono ancora vivo...
Mentre il suo corpo si svegliava si rese conto di non aver più brividi. La febbre era scomparsa e gli occhi si aprirono lentamente, come serrande arrugginite. La luce era forte, bianca e accecante. Le mani si accertarono della sua dislocazione nello spazio: si trovava sempre nello stesso posto, nella stessa maledetta grotta.
Non riuscì a vedere nulla per diversi minuti, travolto da una pioggia di luce. Gli occhi bruciavano; la bocca aperta non riusciva ad espellere alcun vocabolo. Si sollevò sui gomiti e qualche ombra cominciò ad apparire tra le fitte maglie della luce. Una persona stava seduta davanti a lui con le braccia conserte. Non riusciva a vederne bene i contorni né tantomeno il volto, ma era assolutamente sicuro che si trattasse di una persona. Non poteva essere un animale. Stava in silenzio davanti a lui, ma Tom non avvertiva nessun sentore di pericolo, nessuna minaccia. Non sapeva bene perché, però era sicuro di non doversi aspettare niente di brutto da quella presenza silente: emanava una sorta di sensazione di benessere, di pace.
Infine riuscì a metterla a fuoco e il cuore gli balzò nel petto. La persona che si trovava davanti a lui era un essere grigio dal corpo filiforme. Era privo di indumenti. La testa piccola e di fattezze non dissimili a quelle umane. Sorrideva in modo strano, incomprensibile, e il cervello di Tom faceva faticava a decifrarne i lineamenti. Gli occhi grandi e luminosi si muovevano velocissimi e il suo sguardo era liquido, indefinito.
Tom cercò di concentrarsi e il suoi occhi si divincolarono dalla morsa della luce accecante, rendendosi conto che l’essere era presumibilmente una femmina, o almeno le due protuberanze perfettamente sferiche nel petto che erano del tutto simili a un seno, lo facevano supporre. La figura aveva un aspetto aggraziato e anche piacevole alla vista, nonostante l’estrema magrezza. Tom si rese conto che la piacevole sensazione di benessere proveniva da quegli enormi occhi ed abbassò le difese, avvicinandosi un poco.
La bocca dell’essere sembrava priva di labbra, senza forma. Poi, invece, ci fu un lieve movimento e una sensazione di morbidezza e sensualità fece intravvedere la linea delle labbra, con un bagliore di mucosa umida, rosa come una pennellata veloce che catturava l’essenza e il senso, tralasciando la forma.
Un suono melodioso si librò nell’aria e si posò dolcemente sui timpani di Tom. Comunque lui non riuscì a decifrare nulla se non la piacevole sensazione di dolcezza. Sentiva crescere in sé un’impellente necessità di comunicare; era passato troppo tempo dall’ultima volta che aveva scambiato due parole con qualcuno, in quel maledetto treno che ancora correva nella sua testa.
Era attratto da quegli occhi magnetici, da quella forza irresistibile che lo trascinava nel vortice dell’iride luminescente. Le sensazioni forti e contrastanti si succedevano senza soluzione di continuo nella sua mente confusa. Mille immagini, mille pensieri lo bombardavano oltre i confini della comprensione.
Il capogiro.
Le gambe molli.
Crollò a terra, accasciandosi sulle braccia ripiegate sotto il petto.
- ...Nel cielo grigio la coperta di nuvole ricoprì la montagna gelata...Le capre si sollevavano sulle zampe posteriori per afferrare le foglie più tenere...L’impronta delle labbra con il rossetto su un fazzoletto di carta, o era carta igienica?..
Non ricordava bene.
Mentre i pensieri sparsi dilagavano nel cervello si sentì trascinare di peso da braccia forti. Non riusciva a opporre resistenza e, del resto, non aveva la minima intenzione di farlo. Le palpebre erano incollate. La bocca cucita.
Un lampo di luce.
Una mano protesa.
L’acqua limpida scorreva su un pavimento di ciottoli perfettamente tondi e i suoi capelli seguivano la leggera corrente, sfiorando i riflessi verdi.
Lui avrebbe voluto chiedere aiuto ma non riusciva neanche a parlare, quando invece sarebbe stato necessario urlare a squarciagola. Nessun suono riusciva a scappare dalla prigione delle sue corde vocali.
Una libellula nera si posò sul suo naso e dispiegò le ali per un istante prima di spiccare il volo nuovamente.
Qualcosa, qualcuno gli stava vicino e cercava di dargli in pasto una briciola di speranza, ma Tom non riusciva ad ingoiare quella cosa amara e inodore. La sua mascella era serata dagli spasmi muscolari; le viscere si torcevano in un bagno di acido cloridrico.
Le sottili dita grigie gli sfiorarono il viso con una carezza, e calò il buio.
Per sempre.
Qualcuno gli scosse le spalle. In un primo momento con delicatezza, poi con maggior decisione e infine con gran vigore.
- Sveglia! Sveglia!
Tom aprì le saracinesche sopra i suoi globi oculari. Le dita lunghe e affusolate non erano grigie. Erano anche decorate con smalto rosso.
- Cosa?
- Devi alzarti. Tra qualche ora parte il treno.
Tom regolò le sue pupille all’inaspettata pioggia di luce, mise a fuoco il volto che aveva davanti, e lo riconobbe.
- Tina? Ma cosa…
- Affanculo, Tom. Ti vuoi alzare o no?
Lui si immerse dentro le lenzuola e richiuse le saracinesche. Disturbato dall’aria frizzante che invadeva la stanza e, soprattutto, da quella luce accecante.
- No! - urlò dentro il morbido tessuto del cuscino. - Stavolta non mi alzo e non prendo nessun cazzo di treno!
La sorella uscì dalla stanza, sculettando di rabbia. La porta si chiuse con un tonfo.
Una libellula nera volteggiò per un attimo sopra il suo sudario, dopodiché uscì dalla finestra.
Il treno partì con un passeggero in meno.
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