Lasciate ogni speranza o voi che entrate

Bochesmalas

sabato 30 aprile 2016

L'apparizione


Anastasia era intenta a sbrigare le faccende domestiche come era solita fare tutti i pomeriggi al rientro dal lavoro. In soggiorno, sul divano, Franco schiacciava un pisolino, approfittando di un inaspettato momento di silenzio. Nelle altre stanze i cuccioli d’uomo erano impegnati a fare i cazzi propri, grazie allo scarso livello di attenzione dei genitori.
Il pasto frettoloso e pesante aveva steso lui e caricato di sensi di colpa e conseguente iperattività riparatrice lei. Perciò la guardia si allentò e i due pargoli, Andrea e Lucia, si diedero anima e corpo all’attività ludica multipiattaforma, con smartphone, computer, console per videogiochi e tablet, tutti accesi contemporaneamente e connessi con tutto l’infinito mondo del web. Approfittando della protezione che offriva la loro tana si lanciarono a capofitto in un’infinita serie di giochi online per lo più riservati a ragazzi più grandi o addirittura a maggiorenni. Tra i cuscini colorati e le pareti pasticciate delle loro stanze si poteva assistere ai giochi più cruenti e sanguinari disponibili sul mercato, mentre con una mano libera, o forse addirittura con il piede quando tutte e dieci le dita delle mani erano occupate, continuavano a scrivere sms ben oltre la soglia del limite di velocità permesso ai polpastrelli degli esseri umani. E tutto questo avveniva nel silenzio più assoluto. Era di fondamentale importanza non essere scoperti. A tale scopo, infatti, avevano escogitato alcuni ingegnosi stratagemmi: il maschio si era circondato di cuscini in mezzo ai quali poteva facilmente far sparire i devices più compatti e inoltre aveva piazzato un gingillo con dei campanelli alla maniglia della porta; la femmina invece si avvaleva della collaborazione, o per meglio dire della complicità, del gatto di casa che per abitudine soffiava e scattava all’attacco ogni qualvolta qualcuno toccava la maniglia della porta.
Oltretutto tutti e due mettevano a disposizione un orecchio ciascuno da dedicare ai rumori e movimenti della madre e dei vari elettrodomestici da lei manovrati. L’altro orecchio era perennemente impegnato con un altoparlante delle cuffie. I due si tenevano in contatto costantemente con un’apposita applicazione gratuita, e quando uno di loro avvertiva l’avvicinarsi del pericolo avvisava subito l’altro e scattava il blackout all’unisono in tutte e due le postazioni di gioco.
Quel pomeriggio la situazione era assolutamente sotto controllo. L’aspirapolvere girava lontano e il russare che si udiva dal soggiorno, quando l’elettrodomestico riprendeva fiato, era decisamente rassicurante.
Ad un certo punto però, Andrea che era impegnato a far fuori uno stuolo di nemici con il suo m-16 virtuale, sentì un qualcosa che gli sfiorava la spalla.
- Vattene gatto maledetto!
E proseguì con le sue micidiali raffiche a falciare decine di soldati dell’altra fazione.
Ma subito dopo la presenza di qualcuno alle sue spalle si manifestò nuovamente e con maggiore consistenza.
- Lucia, cosa diavolo ci fai qui! Non rompere!
E si voltò di scatto, mentre le pallottole del nemico sibilavano pericolosamente sopra il suo elmetto e tra le sue gambe virtuali divaricate. Ma non trovò nessuno, né gatto né sorella.
Mandò subito un messaggino alla postazione di Lucia per accertarsi che stesse mantenendo la posizione nella sua trincea e lei, per tutta risposta, lo mandò a quel paese in modo sin troppo colorito per una signorina di un metro e mezzo.
Andrea in un primo momento venne rassicurato da quella bella raffica di sfanculi, ma poi smise di far scorrere le dita sul touchpad, e di essere rassicurato, e si fermò un istante ad ascoltare la voce della casa.
L’aspirapolvere correva veloce. I pisolini continuavano a essere schiacciati senza pietà dal padre. La postazione attigua era saldamente in mano a sua sorella e al gatto e nella sua tana non c’era nessuno. Anche i campanelli di fronte a lui erano immobili. Eppure qualcuno lo aveva toccato, non aveva alcun dubbio.
Si alzò, staccò la cuffia microfonata e mise in pausa il gioco sul computer e quello sul tablet, nel quale stava giocando a turni in modalità multiplayer. Nella frazione di secondo che intercorse tra queste manovre e l’assunzione della posizione eretta fece in tempo anche a inviare un paio di sms. Dopodiché rovistò tra gli innumerevoli cuscini nella stanza alla ricerca della misteriosa presenza. Guardò anche nell’armadio e sotto il letto ma non trovò niente di interessante, eccetto una figurina che non vedeva da mesi e che aveva già data per dispersa.
Intanto l’aspirapolvere aveva finito la sua corsa e si era ritirato ai box, e Franco era risorto sopra una catasta di pisolini morti. Perciò Andrea mise fine alle ricerche e si occupò di occultare le prove, spegnendo tutti gli apparecchi che aveva a portata di mano, eccetto il cellulare. Poi aprì un libro e un quaderno a caso e fece finta di studiare, ma non prima di aver inviato il messaggio di allerta meteo alla sorella. Era solo questione di pochi secondi.
Uno.
Due.
Tre…e qualcuno girò la maniglia.

- Entra pure, mamma.
Il tintinnio del campanello preannunciò l’ingresso di Anastasia armata di grembiule, spolverino, bigodini sulla testa e cuffie dell’iPod nelle orecchie. Nonostante la preannunciata tempesta però la sua presenza durò giusto l’attimo di dare una sbirciata al libro aperto e al portatile chiuso. Subito dopo il campanellino ne annunciò l’uscita fulminea.
Andrea attese con il libro aperto, scandendo i secondi con le dita della mano. Ma in quell’occasione le previsioni non si avverarono e il campanello tacque.
Un veloce messaggio alla sorellina e riaprono i giochi in contemporanea, ognuno nella sua stanza chiusa, ma mai così vicini. Il sole splendeva alto e radioso.

Dopo una mezzora di zombie squartati, una partitina a calcio, una a basket e qualche drago, Andrea avvertì nuovamente una presenza estranea nella sua stanza. Il suo nido era stato violato. Il firewall non aveva svolto a dovere la sua funzione.
In quell’occasione però il ragazzino non si fece prendere dal panico e mantenne la posizione, dopodiché con un gesto fulmineo azionò la webcam del suo pc e passò dal campo di battaglia, che vedeva impegnati gli elfi contro un esercito di orchi, all’analisi del perimetro intorno al suo centro di comando. Per un attimo gli parve di scorgere un’ombra ma niente di più. Poteva anche trattarsi di un riflesso proveniente dal suo schermo o della sua stessa ombra mentre si era mosso per scrutare le retrovie. Mentre controllava ogni centimetro alle sue spalle inviò un nuovo messaggio alla sorella, e questa volta non si trattava di previsioni del tempo: era un comunicato che riguardava la sicurezza nazionale.
I suoi occhi roteavano in ogni angolo senza far trasparire alcuna emozione, mentre continuava a giocare per non far destare sospetti nell’intruso. 
Pur essendo di corporatura minuta e apparentemente gracile, era forte, sicuro di sé e non temeva niente e nessuno; aveva ucciso centinaia di migliaia di zombie e mostri di ogni genere nella sua breve - ma intensa - carriera e nessuno, tantomeno un’ombra impalpabile, poteva essere più pericoloso, brutto e malvagio di loro. Era uno spietato cacciatore, mica uno di quei pupazzi imbalsamati che i grandi mettono dove vogliono.
Tuttavia nella stanza c’era silenzio, Andrea riusciva a udire solo il suo respiro e il baldanzoso cuore che pompava nel suo petto. Nient’altro.
Fuori dalla stanza invece i genitori discutevano animatamente. Anche nella postazione di Lucia tutto era sotto controllo, stando all’ultimo comunicato ricevuto pochi secondi prima. Il nemico si nascondeva e lo sapeva fare molto bene.
Andrea avrebbe potuto chiamare rinforzi. Le forze di sicurezza con i bigodini sarebbero intervenuti subito in forze per mettere al sicuro l’area. Probabilmente avrebbe potuto contare anche sui mezzi pesanti, se solo questi avessero lasciato il parcheggio sul divano. Ma lui non lo fece. Non chiamò nessuno e attese l’attacco del nemico in solitudine, ma non proprio, in quanto era sempre in stretto contatto con la combattiva sorellina che armeggiava di mouse al di là di una sottile fila di mattoni.

Ad un certo punto però, quando la situazione sembrava completamente sotto controllo, e mentre era impegnato a dare un’ulteriore sbirciatina agli specchietti retrovisori, l’apparizione si materializzò nel centro della stanza.
Era una donna avvolta in un drappo candido che dalla testa scendeva sino ai piedi. Era circondata da un leggero alone luminoso come se i suoi contorni non fossero ben definiti. Aveva un sorriso dolce che ricamava un volto bellissimo.
Andrea la fissò a lungo, era incuriosito e affascinato da quella figura, gli sembrava la madonna come veniva descritta e raffigurata nei libri. Gliel’aveva descritta benissimo la catechista solo pochi giorni prima.
Appena si riprese dall’estasi mistica notò che accanto a lei c’erano altre due figure più minute, anch’esse avvolte in vesti bianche, ma non riusciva a scorgere i loro volti.
Andrea abbandonò lo scontro con il drago e si alzò per andare incontro alle tre persone sfumate che gli stavano davanti. Non aveva paura.
Scostò il drago e il computer e si aprì la strada verso i visitatori. Arrivò quasi al contatto con loro quando udì un urlo lancinante provenire dalla stanza di sua sorella. Era la sua voce, non aveva dubbi. 
A quel punto si ritrasse dal raggio d’azione delle tre figure bianche e cercò di aggirarle per raggiungere la porta, con uno scatto fulmineo.
Proprio in quel momento udì distintamente le urla di sua madre e suo padre confuse con rumori di oggetti rotti, suoni indefiniti e gemiti di dolore. Ma non fece in tempo a raggiungere il gingillo che penzolava sulla maniglia che quella che credeva fosse la madonna estrasse dalle vesti un lungo coltello, o forse una spada. Non lo vide bene. La lama brillò per un attimo sotto i raggi del lampadario e infine, lasciando una scia luminosa nell’aria, raggiunse la nuca di Andrea.
La testa del bambino rotolò sul pavimento e uno schizzo di sangue colpì i campanellini che risuonarono per un’ultima volta.






giovedì 28 aprile 2016

Viaggi organizzati One Way




Il tour partiva alle 8 del mattino in punto, ma nonostante le raccomandazioni dell’organizzatore in casa Johnson si erano fatte già le 7 e mezza e i preparativi erano ancora in alto mare. La sveglia aveva suonato la carica da un pezzo, ma Matilde non trovava i suoi pannoloni e John, a causa del tremore alle mani, non riusciva a connettere la busta delle urine al cono del catetere. Intanto, la caffettiera sbuffava sonoramente sul fornello eiaculando liquido nero e bollente sulla cucina senza che nessuno se ne accorgesse: erano entrambi sordi e inoltre non possedevano una vista proprio da falco.
Pochi minuti dopo però il fato venne incontro ai due vecchi: Matilde inciampò sulla gonna mentre cercava di sfilarsela e andò a urtare con tutta la sua mole sulle natiche secche del consorte, il quale si ritrovò a sbattere a sua volta sui cassetti del comò. Nell’urto il tubo della busta di raccolta trovò da solo la giusta posizione nel catetere penzolante e John, per non perdere l’equilibrio, si aggrappò ad una delle maniglie della cassettiera svelando in un colpo solo il nascondiglio dei panni della donna.
Alle 7 e quaranta erano pronti per uscire. Si dimenticarono di bere il caffè e di spegnere il gas ma non le loro medicine.
Richiusero il portone alle loro spalle e s’incamminarono verso il punto d’incontro che fortunatamente non era troppo distante. Il vecchio John si mise la giacca più elegante che aveva nel guardaroba, ma si dimenticò di mettere dentro la busta del catetere e anche di prendere dal bicchiere sul comodino la parte superiore della sua protesi dentaria.
Matilde, invece, fece in tempo anche a mettersi il rossetto e a sistemarsi bene prima di varcare l’uscio di casa. Peccato solo che si scordò di aver preso il lassativo la sera prima e i primi passi all’aria aperta, un po’ a causa del movimento e un po’ per colpa dell’escursione termica, misero subito in moto il suo intestino.
Nonostante tutto, però, raggiunsero il pullman alle 7 e cinquantanove, in perfetto orario; la Matilde spinta dalla propulsione a metano e John dalle vecchie ossa memori di un lontano passato da sportivo.
Presero posto nel veicolo sotto lo sguardo severo dell’autista e quello distratto e assonnato della giovane guida. Solo una volta sistemati sui sedile si resero conto di essere quasi da soli dentro l’autobus.
Un paio di file più dietro c’era un vecchio minuto con degli occhiali spessi come fondi di bottiglia. Vicino alla guida si trovava un’arzilla donnetta con i capelli cotonati e la risata contagiosa e in fondo, nella penultima fila di sedili avevano trovato posto tre uomini eleganti, tutti e tre con i cappelli calati sulla fronte e tutti e tre immersi nella lettura di altrettanti quotidiani.
Erano solo in sette ed erano già le otto e qualche minuto. Mancavano ancora una ventina di persone.
Matilde e John si scambiarono sguardi interrogativi e rimproveri di ogni genere: lei lo accusava di non averle dato il tempo di innaffiare le piante lui ribatteva che non gli era stato concesso il dovuto tempo sul water. Lei rimarcò il fatto che lui fosse uscito senza un pezzo della dentiera e con il catetere vescicale in bella vista. Lui rispose che la colpa era dei suoi pannolini e del tempo perso per cercarli, e aggiunse che aveva la nausea a causa delle esalazioni fetide dell’intestino della moglie.
Nel frattempo iniziarono ad arrivare i primi ritardatari.
Per prima salì una donna magrissima, ben vestita, con le unghie smaltate e gli zigomi colorati di rosso. Dietro di lei apparve un uomo obeso con mezza panza al di fuori degli argini della maglia. Rimase incastrato nella prima fila di sedili per un attimo poi, ansimando e imprecando, riuscì ad avanzare e occupò un paio di sedute, schiacciando senza pietà una bottiglietta d’acqua e un bicchiere di plastica che qualcuno aveva lasciato incustoditi. Subito dopo quell’uomo abbondante comparve una coppia: lei aveva un braccio ingessato e lui portava in grembo un erogatore di ossigeno collegato con un tubicino alle sue narici. Si fermarono davanti all’uomo grasso, reclamandone il posto per un non meglio precisato diritto di prelazione. Ma l’omone non era in grado di sollevarsi per cambiare posizione, si era incastrato tra i braccioli dei sedili, e rispose in malo modo ai nuovi arrivati. Era nervoso anche a causa del liquido fresco che fuoriusciva dalla bottiglia schiacciata in mezzo alle sue chiappe grasse. Pensava a una perdita di materiali biologici del suo organismo, da chissà quale orifizio, non avendo visto nulla sul sedile prima di accomodarsi. Quindi, un po’ per l’imbarazzo per il probabile guasto di natura idraulica, un po’ a causa della sfrontatezza di quella coppia arrogante e prepotente, si mise ad urlare a squarciagola, sputacchiando a destra e a sinistra sino a quando i due scocciatori si allontanarono senza rispondere al fuoco.
La donna sistemò sul sedile l’uomo che era paonazzo in volto, in preda ad un’evidente crisi respiratoria, e gli aprì al massimo la valvola dell’ossigeno.
Dopo qualche minuto arrivò un gruppo di una decina di persone in abiti sportivi e in apparente buona forma; erano rumorosi e di buon umore, fin troppo.
Intanto l’autista ci dava dentro con il clacson e la guida, una gnocca in camicia bianca strategicamente sbottonata, gonna attillata e tacchi a spillo, urlava qualcosa a qualcuno dal finestrino della sua postazione.
John e Matilde sentirono solo dei suoni indefiniti, lontani e ovattati. Lei chiese a lui cosa stesse accadendo ma lui, per risposta, aggrottò le sopracciglia. Allora lei lo invitò con una gomitata sul costato a guardare dal finestrino, dato che si era appropriato di quella postazione. John si sollevò sulle gambette secche e scrutò la strada.
Vide una coppia in lontananza. Cercavano di raggiungere l’automezzo con tutta l’energia della quale erano capaci. A ogni passo la gonna della donna si abbassava sino alle ginocchia e lei la tirava su stoicamente e abbozzava un movimento goffo e scoordinato nell’intento di correre. Probabilmente le si era rotta la cerniera e sicuramente non era in grado di correre ma neanche di tenere un passo definibile come svelto. L’uomo, invece, si reggeva su due stampelle e guadagnava terreno su quella che doveva essere la sua consorte.
Nonostante le difficoltà si stavano avvicinando sensibilmente all’autobus ma lei, nel tentativo di superare l’ostacolo di un marciapiede sconnesso, perse una scarpa.
A quel punto l’autista e la gnocca persero la pazienza. Lo sportello si chiuse proprio sul muso dell’uomo con le stampelle.
Il pullman sfiatò come un grosso cetaceo e sputò fuori una colonna di fumo nero, dopo di che si mise in moto e lasciò il parcheggio.
John, con il naso incollato al finestrino, vide il volto di quell’uomo deformarsi in una smorfia dolorosa; era fradicio di sudore e aveva le vene del collo gonfie e pulsanti. La donna era ancora molto distante, aveva una scarpa in mano e nessuna espressione sul viso.
La guida si sporse dal finestrino e con la chioma al vento fece un gestaccio all’indirizzo dei due disgraziati e li apostrofò in malo modo.
Poi, come se nulla fosse, si voltò verso i partecipanti sopravvissuti, accese il microfono e, con voce dolce e sensuale, illustrò il programma del tour. L’altoparlante scagliò la sua voce ad altissimo volume, sino in fondo verso gli ultimi sedili, con una potenza degna di un concerto rock.
Ma nonostante il gran dispiego di decibel qualcuno non sentì assolutamente nulla e qualcun altro capì ben poco. Infatti oltre a soggetti affetti da enfisema, morbo di Parkinson e artrite, c’erano altri completamente o quasi sordi, qualche principio di Alzheimer e una buona probabilità di un paio di casi di demenza senile. 
Ma la guida era impegnata a specchiarsi sui vetri lucidi dell’autobus, ancheggiava, andando su e giù nel corridoio tra i sedili, e di tanto in tanto lanciava occhiate maliziose all’indirizzo dell’autista. Questi, infatti, più che badare a cosa stesse accadendo sulla sua carreggiata era impegnato ad osservare le movenze della giovane donna nel suo grande specchietto e ricambiava quegli sguardi piccanti senza alcun pudore.

Qualcuno nei sedili davanti chiese una busta ma venne ignorato e dopo qualche attimo in parecchi vennero irrorati da un discreto gettito di vomito.
Dopo una mezzora di strada, accompagnati dalla calda voce della guida, il pullman si fermò, in molti si svegliarono e qualcuno continuò a vomitare sul vicino.
Arrivò il momento della prima tappa del tour. La guida si mise sul naso un paio di occhiali con la montatura rossa, si piegò verso un plico che aveva sul sedile e lesse un paio di righe inerenti il comportamento da tenere durante la visita e qualche nota legale. Nessuno la ascoltò, ma il gruppo degli sportivi ne approfittò per sbriciare nella scollatura della camicetta.
Poi iniziò l’operazione di scarico passeggeri, sicuramente il momento più delicato e pericoloso della gita. Il gruppo degli allegroni sportivi toccò terra baldanzosamente per primo, ma nello stretto passaggio, sui gradini del pullman, qualcuno di loro si strofinò sulla gonna della guida, qualcun altro, non visto, le annusò i capelli. Poi si scambiarono commenti piccanti e sorrisi compiaciuti, ma lei non badò minimamente a quanto accadeva alle sue spalle e, anzi, si stava alterando perché le operazioni di sbarco andavano troppo a rilento.
Dopo una decina di minuti lo sportello si chiuse e restò chiuso dentro, o meglio incastrato, anche l’omone obeso, con la bottiglia tra le natiche.
Gli altri iniziarono il giro turistico con viva e vibrante soddisfazione.

La hall era immensa, lucida e pulita come nei migliori aeroporti nei giorni di poco traffico. Era domenica e le attività ridotte al minimo e la scarsa presenza di pubblico e visitatori garantivano un accesso agevole a ogni servizio della struttura. 
La comitiva di anziani seguiva i glutei ondeggianti della guida con una certa difficoltà ma anche con qualche soddisfazione.
Visitarono per primo l’ambulatorio di ortopedia, dove poterono ammirare una vasta serie di protesi di acciaio, platino e ceramica, pesi per le trazioni, un’ottima collezione di viti di varie dimensioni e poi stampelle e soprattutto carrozzine all’avanguardia, con motore o senza, sedile riscaldato, autoradio e vano bar.
Proseguirono verso la sala operatoria adiacente destinata per i piccoli interventi in regime di day hospital. Qualcuno ne approfittò per farsi dare una controllatina e una donna, presa dell’entusiasmo, esagerò un pochino: si fece rimettere apposto una spalla lussata e si fece dare una smussatina al suo alluce valgo.
I più audaci seguirono da vicino la parte terminale di un intervento con il chirurgo impegnato nella sutura della ferita.
Già dopo i primi minuti di visita l’umore del gruppo era mutato, l’allegria serpeggiava tra le dentiere ballerine e le ossa scricchiolanti e un altro bottone della camicetta della guida che aveva abbandonato la sua asola.
Dopo una doverosa visita alla cappella del nosocomio le donne del gruppo si lanciarono nello shopping più sfrenato nella farmacia duty free aperta appositamente per loro. C’era chi comprò fasce elastiche, protesi, enteroclismi e maschere d’ossigeno, chi si spinse all’acquisto di intere collezioni di farmaci di una o dell’altra casa farmaceutica e chi si accontentò di una semplice confezione di panni di buona qualità.
Finito lo shopping la guida si dovette fermare per consegnare l’uomo con la bombola d’ossigeno ai barellieri del pronto soccorso, con sommo dispiacere della moglie che iniziò a inveire verso il proprio consorte steso sulla barella. L’uomo era violaceo in volto a aveva la mandibola cascante, ma pareva ancora vigile. Tuttavia non rispose agli insulti di sua moglie e si lasciò trasportare tra le sale candide del pronto soccorso senza una parola, ma con il sorriso sulle labbra.
Dopo questo piccolo contrattempo il resto del gruppo proseguì la visita. John e Matilde erano in prima fila dietro alle natiche tonde della guida, erano eccitati e pieni di vita mentre ammiravano lettighe, ambulatori e interi armadi ricolmi di succulente flebo e medicinali di ogni genere; un’autentica delizia per le loro pupille. Lì dentro i loro passi erano sicuri, l’odore di disinfettante inebriava i loro sensi, i suoni metallici dei ferri chirurgici, e il rumore degli aspiratori che facevano gorgogliare il muco dalle cannule oro-faringee, erano un toccasana per i loro timpani intorpiditi.
Era il paradiso o comunque qualcosa di molto vicino.
Nell’estasi generale ci furono nell’ordine: la visita all’ambulatorio di otorino, quello oculistico, il ginecologico e infine il reparto di neurologia e qui ci fu l’apoteosi del giro turistico con alcune vecchiette che si menarono di brutto per ottenere la priorità nella sala per gli elettroencefalogrammi.
Purtroppo però la guida non riuscì ad accedere al reparto di cardiologia a causa di un’improvvisa emergenza che aveva portato alla chiusura della porte. Si seppe più tardi che il problema era stato causato dal loro compagno di viaggio che era stato precedentemente accompagnato in pronto soccorso. John, infatti, mentre la porta gli veniva chiusa in faccia, intravvide per un attimo, solo per un attimo, la moglie di quell’uomo che piangeva appoggiata a un muro. Ma non disse niente; era estasiato da quell’ambiente, da quel profumo, che non voleva perdersi un solo attimo di quel meraviglioso tour guidato. La moglie, al suo fianco, muoveva le gambone grosse come sequoie secolari con l’agilità di una gazzella e stringeva forte il suo braccio, come una bambina eccitata dalle luci di un luna park.
E questa era solo la prima tappa, chissà che meraviglie li aspettava il proseguo del viaggio. Anche se nessuno aveva letto bene la brochure; anche se nessuno era a conoscenza dell’esistenza di una seconda, o di un’eventuale terza tappa. Ma in ogni caso questa era per tutti la prima.

A quel punto della visita la ragazza dentro la sua stretta gonna faceva fatica a tenere il passo dei vecchietti ringalluzziti dall’atmosfera. Correvano come una mandria di gnu nella prateria e quasi nessuno di loro era più interessato al suo culo. Volevano vedere tutto e subito e non avevano più voglia di ascoltare le sue spiegazioni.

Dopo circa un’ora di lunga ed estenuante camminata sotto le luci al neon, con qualche piccola pausa per ammirare qualche scorcio pittoresco, giunsero alla sala delle autopsie guidati dalla ragazza con le scarpe in mano. I piedi sopra quei trampoli le facevano male e ormai l’ambiente si era riscaldato e non ci formalizzava più. Poteva proseguire a piedi nudi nell’indifferenza generale.
Lei aprì le porte della sala nel silenzio più assoluto di tutto il gruppo. Non si udivano più né rantoli, né gorgoglii catarrosi. Erano tutti in attesa che si aprisse il sipario sulla scena più importante.
La guida ci mise del suo meglio per creare la giusta atmosfera, la giusta enfasi, al momento dell’apertura delle porte. Spinse piano, incurante del fatto che l’apertura dell’ennesimo bottone aveva fatto svettare un capezzolo fuori dalla camicetta. Ma tanto nessuno ci badava più, erano tutti senza fiato, impazienti di vedere quello che c’era dentro. In tutti i sensi.
Entrarono in religioso silenzio. Le luci si accesero con un colpo a effetto, un effetto domino altamente scenografico che lasciò a bocca aperta i turisti. Prima si illuminò il primo tavolo con una donna aperta dal collo sino al pube e le interiora bene in vista. Il medico accanto si inchinò per ricevere il meritato applauso.
Poi la scena venne conquistata dal secondo tavolo dove il gruppo poté ammirare un cranio aperto e una bella cascata di globuli rossi da un canale di scolo.
Infine s’illuminò anche il grande tavolo centrale dove era disposto il corpo nudo del loro ex compagno di viaggio, fresco fresco, appena deceduto. Pronto per essere aperto in diretta.
Il gruppo si avvicinò spingendo da parte l’avvenente guida. Il chirurgo iniziò a incidere le carni dell’uomo e aprì gli squarci, palpeggiò gli organi, i polmoni anneriti, il cuore pallido, il fegato necrotico e i reni rinsecchiti. I turisti gli stavano dietro e osservavano incantati; qualcuno di loro ebbe un’inaspettato orgasmo, qualcuno pianse per l’emozione e il catetere di John si incastrò in un tubo di drenaggio causando un’abbondante fuoriuscita di urina sulla gamba della guida. Lei si ritrasse inorridita ma non disse nulla, mentre il liquido caldo e odoroso le colava dal polpaccio sino a raggiungere lo smalto rosso delle dita dei piedi. Non poteva disturbare i lavoro del patologo, questi erano gli accordi: rispettoso silenzio qualunque cosa accadesse.
Il medico finì l’autopsia in un luccichio di bisturi taglienti, contenitori colmi di formalina, provette e vetrini con campioni di tessuto e fluidi sottratti al corpo dell’ex compagno di viaggio degli spettatori. Sul tavolo, disposti come gioielli in una vetrina prestigiosa, facevano bella mostra di sé: la tiroide, la milza, i reni, il pancreas, il colon, le gonadi e il fegato sezionato.

Il gruppo non seppe resistere alla tentazione di un lungo e caloroso applauso. L’anatomopatologo accennò un inchino di ringraziamento e si avvicinò alla gnocca. Lei li consegnò l’elenco dei partecipanti al viaggio con tutta una serie di dettagliate informazioni sulla collezione di patologie delle quali ognuno di loro era afflitto. Il medico lesse con attenzione il documento e dopo averlo fatto, si tolse gli occhiali con un guanto ancora sporco di sangue, scrutò con cura i vecchi che aveva di fronte. Uno ad uno. Poi fece un cenno alla ragazza e lei lasciò la sala e si richiuse la porta alle spalle. Nessuno la seguì.

Il medico fece l’appello e ad ogni chiamata un uomo o una donna faceva un passo avanti, si liberava dai vestiti e si stendeva sul tavolo autoptico con le proprie forze o con l’aiuto del gruppo. Dopo che il bisturi del chirurgo terminava il lavoro su un corpo veniva tirato giù garbatamente e veniva sostituito da un altro. Con calma. Senza fretta. In silenzio.

Uno alla volta tutti quei corpi liberarono la propria anima.











martedì 26 aprile 2016

Assenzio




La storia di Artemisia e Laudano.

Al crepuscolo la città si popolava di personaggi strani, soggetti poco raccomandabili, avanzi di galera, prostitute e nullafacenti di ogni risma. La pioggia, come sempre, cadeva fine e leggera sul ciottolato calpestato dalla fauna della sera e dai cavalli che conducevano verso casa le carrozze dei gentiluomini. L’acqua sottile e impalpabile scivolava sui passanti senza inzupparne le vesti, senza che nessuno se ne preoccupasse. Era uno degli elementi fondamentali della vita notturna della città; gli altri ingredienti insostituibili erano l’alcol, le donne di facili costumi, l’oppio e il gioco d’azzardo.

Il vecchio McKenzie, avvolto nel suo vecchio pastrano, si occupava di dare vita ai lumi ad olio del quartiere con il suo fido bastone. Come sempre.
Wilson, l’oste, ne attendeva il passaggio per aprire la sua bottega sotto la tenue luce gialla tremolante dei lumi. Ogni sera alla stessa ora si preparava ad accogliere i papponi, i disadattati, gli alcolisti e tutti i poco di buono che avevano necessità di un semplice pasto caldo, una pinta di birra o un po’ di whisky a buon mercato.
Wilson era uno generoso, comprensivo e altruista, ma non disdegnava l’utilizzo delle cattive maniere in caso di necessità. E in quei tempi un uso più o meno moderato di violenza e forza bruta per mantenere la situazione sotto controllo, e la propria bottega intatta, era un evento quotidiano immancabile e necessario. Quasi tutte le sere, infatti, nei vicoli e nei locali della città vecchia scoppiavano risse furibonde dovute all’eccesso di alcol, ma anche a scippi, furti e imbrogli di ogni sorta. C’era chi non voleva pagare le puttane, chi non voleva pagare il bicchiere di gin, ma anche chi il gin lo annacquava e chi le puttane le offriva con una discreta collezione di malattie veneree. Insomma, al calar delle tenebre nella città regnava il caos. Ma era un caos ordinato e prevedibile nel suo consueto svolgimento.
La notte portava consiglio, ma anche la sifilide, lo scolo, la cirrosi e pure qualche coltellata al costato.
Gli sbirri stavano alla larga, nonostante tutti sapessero benissimo cosa accadesse nei vicoli della città vecchia appena calavano le tenebre. Ma i gendarmi andavano via insieme agli ultimi raggi di sole, onde evitare guai seri nella terra di nessuno.

Quella sera da Wilson si presentarono i soliti clienti abituali ma anche due forestieri: un uomo alto e magro vestito con abiti raffinati ma decisamente fuori moda e una graziosa fanciulla.
La fauna fumosa e distillata esaminò dalla testa ai piedi i due stranieri. La ragazza aveva fattezze e un’eleganza improponibile da quelle parti, nel locale di Wilson come in qualsiasi altra locanda del quartiere. Quelli del turno di notte erano abituati a donne sfatte, usate, grasse e talvolta avanti con l’età, non di certo ad avvenenti fanciulle avvolte in abiti eleganti e costosi e condite con profumi delicati.
Ma i due stranieri non erano interessati a quanto accadeva intorno a loro né erano turbati dagli sguardi e dai commenti degli altri avventori. Si accomodarono al loro tavolino lercio e instabile come se si trovassero nel locale più raffinato della città.
L’uomo si tolse il cappello e si sfilò i guanti, li poggiò alla sua sinistra e poi sfiorò appena le mani giunte della ragazza come per rassicurarla di qualcosa. Infine fece un cenno per chiamare l’oste.
Wilson si asciugò le mani nel grembiule lurido e prese la comanda, riuscendo anche a non farsi scappare né un rutto né una parolaccia. Ritornò al tavolo dei nuovi clienti con due calici, una bottiglia, due cucchiaini d’argento e una ciotola con dello zucchero.
I bicchieri non erano proprio pulitissimi, ma i due stranieri parvero non farci caso e attesero che l’oste sistemasse il loro tavolino.
Wilson versò il liquido verde nei due bicchieri, con un gesto abile ed elegante a suo modo. Sistemò con cura i due cucchiai forati sopra ai calici e vi dispose una zolletta di zucchero sopra ognuno di essi. Senza dire una parola si allontanò nuovamente e ritornò con una caraffa d’acqua. Ne versò lentamente parte del contenuto prima su uno poi sull’altro bicchiere, e lo zucchero si disciolse dolcemente sopra il distillato aromatico. Dopodiché prese i cucchiai e mescolò il contenuto dei due calici contemporaneamente, usando entrambe le mani, finché la bevanda non assunse un aspetto opalescente. A quel punto la fata verde si mostrò in tutto il suo splendore e il suo profumo forte e speziato invase tutta la sala.
Durante l’operazione condotta magistralmente dall’oste i due forestieri non proferirono parola e osservavano attentamente. Quando Wilson ebbe finito l’uomo lo ringraziò con un cenno del capo.
Solo quando stava facendo rientro dietro al bancone l’oste si rese conto di non essere riuscito a vedere gli occhi di quell’uomo. Ci pensava e ripensava, mentre un ubriaco gli urlava insistentemente qualcosa che lui però non riusciva a sentire. Il suo sguardo e la sua testa erano ancora al tavolo degli stranieri. Vide brillare come stelle nella notte gli occhi chiari della ragazza, ma sotto le folte sopracciglia del lungo ospite c’erano solo le tenebre. Non un bagliore, non un pur piccolo e impercettibile movimento.
Wilson asciugò alcuni bicchieri, ma era soprappensiero e non badava più ai grotteschi avventori che attendevano al bancone, né a chi si dileguava nell’ombra senza aver saldato il conto.
Intanto al tavolo degli sconosciuti la ragazza immerse due dita nel liquore, le estrasse gocciolando sul legno consunto del tavolo e le poggiò sulla bocca dell’uomo. Questi aprì la saracinesca di denti lunghi, sporchi e marci e succhiò i polpastrelli intrisi di liquido lattiginoso, incurante degli sguardi degli altri clienti. Ma quando la fanciulla estrasse dalla bocca le lunghe dita affusolate vennero fuori le falangi ungueali completamente scarnificate. La pelle e la carne dei polpastrelli erano svanite nelle fauci dell’uomo e la punta delle dita era solo osso nudo, senza una goccia di sangue, né un grido o un gemito ad accompagnare l’atipico spuntino.
Nel locale piombò un silenzio pesante e spettrale e tutti, anche i più ubriachi si concentrarono sui due stranieri e sul loro strano comportamento. Anche se erano tutti stomaci forti, abituati a ogni sorta di porcheria, all’alcol puro e alla sbobba indigesta di Wilson, qualcuno vomitò sul pavimento, qualcun altro si pisciò nei calzoni, ma lo fece per cause estranee alla condotta della coppia.
Intanto la giovane continuava a comportarsi come se avesse ancora i polpastrelli al loro posto e non lasciava intendere di provare dolore.
Continuarono a sorseggiare la dolce fata verde come se fosse acqua fresca e dopo pochi minuti chiesero il bis. O meglio: l’uomo chiese il bis in qualche modo, pur senza aprir bocca.
Wilson attese un attimo, indeciso sul daffarsi, ma riuscì a mettere da parte ogni remora e titubanza e si recò al tavolo con l’occorrente per il rito della mescita del distillato verde. Eseguì la procedura con cura, senza far trapelare alcuna emozione. Era un professionista lui.
Le orbite nere del forestiero seguivano la preparazione con apparente interesse. La ragazza, invece, era assorta in altri pensieri.
Quando l’oste finì la sua opera il suo sguardo cadde involontariamente, ma inevitabilmente, sulla mano della fanciulla e, quando si accorse che il suo aspetto era mutato ancora una volta, fece sobbalzare il vassoio con la caraffa d’acqua ghiacciata. Riuscì a tenerla in equilibrio con un’abile contro mossa del bacino e in questo modo evitò la doccia fredda alla coppia.
Buttò nuovamente un’occhiata su quello che c’era sul tavolino, giusto per assicurarsene. Ma era proprio quello che aveva visto al primo sguardo: la mano destra della ragazza era completamente scheletrica, dalla punta delle dita sino al polso. Non un goccio di sangue né tracce di tessuto o brandelli di carne, né odore - per quanto fosse possibile rilevare un odore particolare nel vasto assortimento di aromi presente nel locale. -
Wilson si ritrasse; era particolarmente impressionato dalla cosa, finanche disgustato. Le ginocchia gli tremavano e a causa di questo la caraffa arrivò al bancone con grande difficoltà, giusto in tempo per evitare di frantumarsi sul pavimento.
Intanto qualcuno dei clienti abituali aveva già abbandonato il locale e qualcun altro invocava sottovoce, ma non troppo, l’intervento di un sacerdote o chissà chi altro. Il brusio crebbe sino a diventare una vera e propria protesta formale nei confronti di Wilson, reo di non aver preso provvedimenti nei confronti dei due loschi stranieri.
Ma l’oste aveva un’etica tutta sua, assolutamente inviolabile né discutibile da nessun altro: chi consumava e pagava era un ospite sacro, a prescindere da come si comportava o da come appariva, e nessuno, neanche la polizia o il  re in persona, poteva recargli disturbo, altrimenti se la doveva vedere con il suo bastone.
Mentre i fedelissimi riuniti intorno al bancone discutevano animatamente con il padrone di casa, uno di loro, un omino magro ed emaciato, con pochi denti sulle gengive e pochi capelli sul cranio, si accorse che i bei occhioni della fanciulla, che lui stava tenendo d’occhio sin dal momento del suo ingresso nel locale, non brillavano più. Tirò per la giacca un suo amico per attirarne l’attenzione e sibilò qualcosa all’oste. Il piccolo gruppo di esseri galleggianti nell’alcol e avvolti nel fumo inizialmente non badò più di tanto al richiamo dell’ometto. Ma questi insistette e, infine, riuscì ad attirare l’attenzione di tutta la  fauna.
Smisero di blaterare nello stesso momento e si voltarono tutti insieme verso il misterioso tavolino. Qualcuno si aggiustò il monocolo per vedere meglio, altri si sforzarono di tenere aperte le palpebre pesanti a causa dell’alcol. Wilson strinse il bastone, a scanso di equivoci.

L’uomo era immobile nella penombra del suo angolino, il liquore ondeggiava ancora nel suo calice rilasciando riflessi verde smeraldo. Ma di fronte a lui non sedeva più l’avvenente fanciulla con la quale era arrivato, o almeno non ne aveva più l’aspetto. C’era si una figura elegantemente vestita e seduta con grazia con le gambe accavallate sullo scomodo sedile. Ma dalla veste sporgevano braccia e mani scheletriche, e sulla lunga ed esile sequenza di vertebre si trovava un cranio nudo e pulito, lucido come se non fosse mai stato ricoperto di pelle, carne, nervi e vasi sanguigni. Gli occhioni chiari non brillavano più. La ragazza non c’era più.
Lo straniero se l’era bevuta.

Lui continuava a ignorare la piccola folla di curiosi e a sorseggiare il suo Assenzio di fronte allo scheletro della donna. Poi estrasse da una tasca della giacca una boccetta e instillò un paio di gocce del contenuto nel suo bicchiere, si accese un sigaro e proseguì la sua bevuta in solitario, tra una boccata e l’altra di fumo.
Nel frattempo lo scheletro si decompose come un castello di carte tirato giù da un soffio di vento, le singole ossa si sparsero sul pavimento e, per qualche secondo in più, il busto resistette in posizione eretta grazie al rigido corsetto che lo sosteneva. Poi si afflosciò anche quello e la donna si dissolse definitivamente.
L’uomo buttò giù l’ultimo sorso, spense il sigaro in una crepa del tavolino, si pulì la bocca con un fazzoletto candido, riprese i guanti, si mise il cappello e si alzò. Si diresse verso il bancone e a quel punto la piccola folla di avventori avvinazzati si disperse nell’ambiente, lasciando via libera allo straniero.
Questi ora pareva ancora più alto e imponente. Le sue orbite erano ancora più nere e indefinite. Il suo passo ancora più pesante e deciso, tanto che pareva che tremasse il pavimento.
Il visitatore lanciò un paio di monete sul bancone e, senza dire una parola, varcò la soglia del locale e sparì nel vicolo buio, ingoiato dalle tenebre dalle quali era venuto.
Nessuno, né l’oste né i clienti, ebbe qualcosa da aggiungere.

Al tavolo restava solo un mucchietto d’ossa e un vestito vuoto. Il sigaro ancora ardeva nella fessura del tavolino e dai bicchieri vuoti si levavano tenui fumi aromatici appena percettibili.

Giusto il tempo di un altro sorso al banco e la signora Wilson, apparsa dal nulla, ripulì il pavimento dalle ossa e si mise sotto braccio il vestito. Quando il gruppo di ubriachi si voltò nuovamente non c’era già più nulla. Ripresero il discorso con i loro bicchieri e non parlarono più di quella strana vicenda. Mai più.


Ma a quel tavolo non si sedette più nessuno.






sabato 23 aprile 2016

Death Index - Death Index


I Merchandise una volta erano un band punk-post-punk dalle grandi potenzialità poi hanno voltato pagina e si sono si sono trasformati in qualcos'altro, una creatura indie pop rock (più pop che rock a dire il vero) che non ha più granché da spartire con la musica delle origini. Ma, evidentemente, il vocalist Carson Cox non ha rimosso dalla coscienza le origini e oggi ritorna in pista con un progetto, i Death Index, che in quelle sonorità (punk, hardcore, post-punk) ci sguazza alla grande.
In questo nuovo progetto musicale Cox collabora con il batterista italiano Marco Rapisarda, da sempre impegnato in campo hardcore-punk con diverse formazioni (Ohuzaru, L'Amico di Martucci,  Smart Cops, Sgurd, Archaic, La Piovra) tra Venezia e Berlino.
I due in questa occasione si dividono tutto l'armamentario strumentale, lasciando a Cox l'esclusiva al microfono e devo dire che la sua voce svolge il compito nel miglior modo possibile per riprendersi la scena.
"Death Index" è stato inciso in giro per il mondo tra Tampa, New York, Berlino e Venezia ed è quasi equamente diviso tra attacchi hardcore vecchia scuola e splendidi oggetti sonori mutanti intrisi di post-punk. Nei primi tre brani c'è già tutta l'essenza di questo disco: l'apertura affidato ai 50 secondi di Fast Money Kill è un'assalto hardcore in stile Minor Threat che da la scossa giusta per tuffarsi nella mischia. La seconda traccia, Dream Machine, è più quadrata e rifinita con un ottima melodia con un leggero gusto gotico-orientale. The Meal, piazzata la posto giusto (pare il seguito della traccia precedente) è un ottimo post punk sospinto da percussioni marziali.
Il resto dell'album prosegue su questa scia con grandi bordate hardcore (Fuori Controllo, Little'n'Pretty, We've Got A Number) e oscure e ammalianti divagazioni post punk come la splendida Lost Bodies, dove pare di sentire il miglior Gary Numan degli ultimi anni, o l'altrettanto riuscita JFK, tetra, ricolma di feedback e carica di tensione.
Chiude il lavoro "Patto Con Dio" che a dispetto del titolo (come del resto accade anche nella scheggia impazzita "Fuori Controllo") si avvale di liriche in inglese e che, nei suoi sofferti 7 minuti di svolgimento, rappresenta la summa di quanto contenuto nel disco: una sorta di originale ibrido tra sonorità storiche e modernità, tra gli Iceage e i Minor Threat o i Circe Jerks. Un po' come se The Jesus and Mary Chain si fossero messi a suonare crust-hardcore.
Un gran bel disco...

Tracklist:

01.Fast Money Kill
02.Dream Machine
03.The Meal
04.Fuori Controllo
05.FUP
06.Little'n'Pretty
07.Lost Bodies
08.We've Got A Number
09.JFK
10.Patto Con Dio

2016 - Deathwish Inc.







giovedì 21 aprile 2016

Daylight Robbery - Accumulated Error


I Daylight Robbery sono un trio punk-post punk sulla scena dal 2008. La band di Chicago ha all'attivo 2 album (Through The Confusion del 2010 e Estatic Vision del 2012) più svariati singoli. split ed EP. Il nuovo album, intitolato Accumulated Error, rappresenta al meglio il momento di crescita della formazione americana con una scaletta decisamente azzeccata e una bella serie di ottime canzoni.
I coniugi Christine e David Wolf, rispettivamente bassista e chitarrista, si dividono il compito al microfono (con una netta prevalenza delle ottime corde vocali di Christine) coadiuvati dalla macchina ritmica del batterista Jeff Rice. Per quanto riguarda le sonorità presenti in questi solchi prevale la componente punk rock arricchita da sfumature e colori post punk (grazie soprattutto al corposo basso e alla voce di Christine) elementi surf, garage e alternative. Tanto per rendere l'idea i Daylight Robbery suonano un po' come una versione moderna, rivista e corretta, degli storici X di Los Angeles, ma lo fanno dannatamente bene.
Già l'attacco di basso distorto (liberamente tratto dal repertorio dei primi Joy Division) dell'opener Shadows On The Snow mette subito le carte in tavola: suoni nervosi e corposi costruiti su ottime linee melodiche e un gran lavoro della chitarra. 
Tutto il disco è pervaso di elettricità in stile anni 80, tardi 70, con chitarre tese ma mai troppo distorte, ritmi sostenuti che però non fanno mai rischiare una multa per eccesso di velocità. Si avvertono echi di grandi band del passato quali X, Wipers o Warsaw o, in tempi più recenti, i grandi e mai dovutamente considerati Stiffs Inc.
In ogni caso trattasi di un album eccellente con alcune piccole-grandi gemme che brillano di luce propria nella tracklist: Walk Away, Rememoration o Telegraphin.


Tracklist:

01.Shadows On The Snow
02.Children
03.Walk Away
04.New Threat
05.Rememoration
06.Sweet Teeth
07.Incisions
08.Goon Beat
09.Telegraphin
10.Better Off On Mars 

2016 - Deranged Records

Formazione:
Christine Wolf - basso, voce
David Wolf - chitarra, voce
Jeff Rice - batteria