Il tour partiva alle 8 del mattino in punto, ma nonostante le raccomandazioni dell’organizzatore in casa Johnson si erano fatte già le 7 e mezza e i preparativi erano ancora in alto mare. La sveglia aveva suonato la carica da un pezzo, ma Matilde non trovava i suoi pannoloni e John, a causa del tremore alle mani, non riusciva a connettere la busta delle urine al cono del catetere. Intanto, la caffettiera sbuffava sonoramente sul fornello eiaculando liquido nero e bollente sulla cucina senza che nessuno se ne accorgesse: erano entrambi sordi e inoltre non possedevano una vista proprio da falco.
Pochi minuti dopo però il fato venne incontro ai due vecchi: Matilde inciampò sulla gonna mentre cercava di sfilarsela e andò a urtare con tutta la sua mole sulle natiche secche del consorte, il quale si ritrovò a sbattere a sua volta sui cassetti del comò. Nell’urto il tubo della busta di raccolta trovò da solo la giusta posizione nel catetere penzolante e John, per non perdere l’equilibrio, si aggrappò ad una delle maniglie della cassettiera svelando in un colpo solo il nascondiglio dei panni della donna.
Alle 7 e quaranta erano pronti per uscire. Si dimenticarono di bere il caffè e di spegnere il gas ma non le loro medicine.
Richiusero il portone alle loro spalle e s’incamminarono verso il punto d’incontro che fortunatamente non era troppo distante. Il vecchio John si mise la giacca più elegante che aveva nel guardaroba, ma si dimenticò di mettere dentro la busta del catetere e anche di prendere dal bicchiere sul comodino la parte superiore della sua protesi dentaria.
Matilde, invece, fece in tempo anche a mettersi il rossetto e a sistemarsi bene prima di varcare l’uscio di casa. Peccato solo che si scordò di aver preso il lassativo la sera prima e i primi passi all’aria aperta, un po’ a causa del movimento e un po’ per colpa dell’escursione termica, misero subito in moto il suo intestino.
Nonostante tutto, però, raggiunsero il pullman alle 7 e cinquantanove, in perfetto orario; la Matilde spinta dalla propulsione a metano e John dalle vecchie ossa memori di un lontano passato da sportivo.
Presero posto nel veicolo sotto lo sguardo severo dell’autista e quello distratto e assonnato della giovane guida. Solo una volta sistemati sui sedile si resero conto di essere quasi da soli dentro l’autobus.
Un paio di file più dietro c’era un vecchio minuto con degli occhiali spessi come fondi di bottiglia. Vicino alla guida si trovava un’arzilla donnetta con i capelli cotonati e la risata contagiosa e in fondo, nella penultima fila di sedili avevano trovato posto tre uomini eleganti, tutti e tre con i cappelli calati sulla fronte e tutti e tre immersi nella lettura di altrettanti quotidiani.
Erano solo in sette ed erano già le otto e qualche minuto. Mancavano ancora una ventina di persone.
Matilde e John si scambiarono sguardi interrogativi e rimproveri di ogni genere: lei lo accusava di non averle dato il tempo di innaffiare le piante lui ribatteva che non gli era stato concesso il dovuto tempo sul water. Lei rimarcò il fatto che lui fosse uscito senza un pezzo della dentiera e con il catetere vescicale in bella vista. Lui rispose che la colpa era dei suoi pannolini e del tempo perso per cercarli, e aggiunse che aveva la nausea a causa delle esalazioni fetide dell’intestino della moglie.
Nel frattempo iniziarono ad arrivare i primi ritardatari.
Per prima salì una donna magrissima, ben vestita, con le unghie smaltate e gli zigomi colorati di rosso. Dietro di lei apparve un uomo obeso con mezza panza al di fuori degli argini della maglia. Rimase incastrato nella prima fila di sedili per un attimo poi, ansimando e imprecando, riuscì ad avanzare e occupò un paio di sedute, schiacciando senza pietà una bottiglietta d’acqua e un bicchiere di plastica che qualcuno aveva lasciato incustoditi. Subito dopo quell’uomo abbondante comparve una coppia: lei aveva un braccio ingessato e lui portava in grembo un erogatore di ossigeno collegato con un tubicino alle sue narici. Si fermarono davanti all’uomo grasso, reclamandone il posto per un non meglio precisato diritto di prelazione. Ma l’omone non era in grado di sollevarsi per cambiare posizione, si era incastrato tra i braccioli dei sedili, e rispose in malo modo ai nuovi arrivati. Era nervoso anche a causa del liquido fresco che fuoriusciva dalla bottiglia schiacciata in mezzo alle sue chiappe grasse. Pensava a una perdita di materiali biologici del suo organismo, da chissà quale orifizio, non avendo visto nulla sul sedile prima di accomodarsi. Quindi, un po’ per l’imbarazzo per il probabile guasto di natura idraulica, un po’ a causa della sfrontatezza di quella coppia arrogante e prepotente, si mise ad urlare a squarciagola, sputacchiando a destra e a sinistra sino a quando i due scocciatori si allontanarono senza rispondere al fuoco.
La donna sistemò sul sedile l’uomo che era paonazzo in volto, in preda ad un’evidente crisi respiratoria, e gli aprì al massimo la valvola dell’ossigeno.
Dopo qualche minuto arrivò un gruppo di una decina di persone in abiti sportivi e in apparente buona forma; erano rumorosi e di buon umore, fin troppo.
Intanto l’autista ci dava dentro con il clacson e la guida, una gnocca in camicia bianca strategicamente sbottonata, gonna attillata e tacchi a spillo, urlava qualcosa a qualcuno dal finestrino della sua postazione.
John e Matilde sentirono solo dei suoni indefiniti, lontani e ovattati. Lei chiese a lui cosa stesse accadendo ma lui, per risposta, aggrottò le sopracciglia. Allora lei lo invitò con una gomitata sul costato a guardare dal finestrino, dato che si era appropriato di quella postazione. John si sollevò sulle gambette secche e scrutò la strada.
Vide una coppia in lontananza. Cercavano di raggiungere l’automezzo con tutta l’energia della quale erano capaci. A ogni passo la gonna della donna si abbassava sino alle ginocchia e lei la tirava su stoicamente e abbozzava un movimento goffo e scoordinato nell’intento di correre. Probabilmente le si era rotta la cerniera e sicuramente non era in grado di correre ma neanche di tenere un passo definibile come svelto. L’uomo, invece, si reggeva su due stampelle e guadagnava terreno su quella che doveva essere la sua consorte.
Nonostante le difficoltà si stavano avvicinando sensibilmente all’autobus ma lei, nel tentativo di superare l’ostacolo di un marciapiede sconnesso, perse una scarpa.
A quel punto l’autista e la gnocca persero la pazienza. Lo sportello si chiuse proprio sul muso dell’uomo con le stampelle.
Il pullman sfiatò come un grosso cetaceo e sputò fuori una colonna di fumo nero, dopo di che si mise in moto e lasciò il parcheggio.
John, con il naso incollato al finestrino, vide il volto di quell’uomo deformarsi in una smorfia dolorosa; era fradicio di sudore e aveva le vene del collo gonfie e pulsanti. La donna era ancora molto distante, aveva una scarpa in mano e nessuna espressione sul viso.
La guida si sporse dal finestrino e con la chioma al vento fece un gestaccio all’indirizzo dei due disgraziati e li apostrofò in malo modo.
Poi, come se nulla fosse, si voltò verso i partecipanti sopravvissuti, accese il microfono e, con voce dolce e sensuale, illustrò il programma del tour. L’altoparlante scagliò la sua voce ad altissimo volume, sino in fondo verso gli ultimi sedili, con una potenza degna di un concerto rock.
Ma nonostante il gran dispiego di decibel qualcuno non sentì assolutamente nulla e qualcun altro capì ben poco. Infatti oltre a soggetti affetti da enfisema, morbo di Parkinson e artrite, c’erano altri completamente o quasi sordi, qualche principio di Alzheimer e una buona probabilità di un paio di casi di demenza senile.
Ma la guida era impegnata a specchiarsi sui vetri lucidi dell’autobus, ancheggiava, andando su e giù nel corridoio tra i sedili, e di tanto in tanto lanciava occhiate maliziose all’indirizzo dell’autista. Questi, infatti, più che badare a cosa stesse accadendo sulla sua carreggiata era impegnato ad osservare le movenze della giovane donna nel suo grande specchietto e ricambiava quegli sguardi piccanti senza alcun pudore.
Qualcuno nei sedili davanti chiese una busta ma venne ignorato e dopo qualche attimo in parecchi vennero irrorati da un discreto gettito di vomito.
Dopo una mezzora di strada, accompagnati dalla calda voce della guida, il pullman si fermò, in molti si svegliarono e qualcuno continuò a vomitare sul vicino.
Arrivò il momento della prima tappa del tour. La guida si mise sul naso un paio di occhiali con la montatura rossa, si piegò verso un plico che aveva sul sedile e lesse un paio di righe inerenti il comportamento da tenere durante la visita e qualche nota legale. Nessuno la ascoltò, ma il gruppo degli sportivi ne approfittò per sbriciare nella scollatura della camicetta.
Poi iniziò l’operazione di scarico passeggeri, sicuramente il momento più delicato e pericoloso della gita. Il gruppo degli allegroni sportivi toccò terra baldanzosamente per primo, ma nello stretto passaggio, sui gradini del pullman, qualcuno di loro si strofinò sulla gonna della guida, qualcun altro, non visto, le annusò i capelli. Poi si scambiarono commenti piccanti e sorrisi compiaciuti, ma lei non badò minimamente a quanto accadeva alle sue spalle e, anzi, si stava alterando perché le operazioni di sbarco andavano troppo a rilento.
Dopo una decina di minuti lo sportello si chiuse e restò chiuso dentro, o meglio incastrato, anche l’omone obeso, con la bottiglia tra le natiche.
Gli altri iniziarono il giro turistico con viva e vibrante soddisfazione.
La hall era immensa, lucida e pulita come nei migliori aeroporti nei giorni di poco traffico. Era domenica e le attività ridotte al minimo e la scarsa presenza di pubblico e visitatori garantivano un accesso agevole a ogni servizio della struttura.
La comitiva di anziani seguiva i glutei ondeggianti della guida con una certa difficoltà ma anche con qualche soddisfazione.
Visitarono per primo l’ambulatorio di ortopedia, dove poterono ammirare una vasta serie di protesi di acciaio, platino e ceramica, pesi per le trazioni, un’ottima collezione di viti di varie dimensioni e poi stampelle e soprattutto carrozzine all’avanguardia, con motore o senza, sedile riscaldato, autoradio e vano bar.
Proseguirono verso la sala operatoria adiacente destinata per i piccoli interventi in regime di day hospital. Qualcuno ne approfittò per farsi dare una controllatina e una donna, presa dell’entusiasmo, esagerò un pochino: si fece rimettere apposto una spalla lussata e si fece dare una smussatina al suo alluce valgo.
I più audaci seguirono da vicino la parte terminale di un intervento con il chirurgo impegnato nella sutura della ferita.
Già dopo i primi minuti di visita l’umore del gruppo era mutato, l’allegria serpeggiava tra le dentiere ballerine e le ossa scricchiolanti e un altro bottone della camicetta della guida che aveva abbandonato la sua asola.
Dopo una doverosa visita alla cappella del nosocomio le donne del gruppo si lanciarono nello shopping più sfrenato nella farmacia duty free aperta appositamente per loro. C’era chi comprò fasce elastiche, protesi, enteroclismi e maschere d’ossigeno, chi si spinse all’acquisto di intere collezioni di farmaci di una o dell’altra casa farmaceutica e chi si accontentò di una semplice confezione di panni di buona qualità.
Finito lo shopping la guida si dovette fermare per consegnare l’uomo con la bombola d’ossigeno ai barellieri del pronto soccorso, con sommo dispiacere della moglie che iniziò a inveire verso il proprio consorte steso sulla barella. L’uomo era violaceo in volto a aveva la mandibola cascante, ma pareva ancora vigile. Tuttavia non rispose agli insulti di sua moglie e si lasciò trasportare tra le sale candide del pronto soccorso senza una parola, ma con il sorriso sulle labbra.
Dopo questo piccolo contrattempo il resto del gruppo proseguì la visita. John e Matilde erano in prima fila dietro alle natiche tonde della guida, erano eccitati e pieni di vita mentre ammiravano lettighe, ambulatori e interi armadi ricolmi di succulente flebo e medicinali di ogni genere; un’autentica delizia per le loro pupille. Lì dentro i loro passi erano sicuri, l’odore di disinfettante inebriava i loro sensi, i suoni metallici dei ferri chirurgici, e il rumore degli aspiratori che facevano gorgogliare il muco dalle cannule oro-faringee, erano un toccasana per i loro timpani intorpiditi.
Era il paradiso o comunque qualcosa di molto vicino.
Nell’estasi generale ci furono nell’ordine: la visita all’ambulatorio di otorino, quello oculistico, il ginecologico e infine il reparto di neurologia e qui ci fu l’apoteosi del giro turistico con alcune vecchiette che si menarono di brutto per ottenere la priorità nella sala per gli elettroencefalogrammi.
Purtroppo però la guida non riuscì ad accedere al reparto di cardiologia a causa di un’improvvisa emergenza che aveva portato alla chiusura della porte. Si seppe più tardi che il problema era stato causato dal loro compagno di viaggio che era stato precedentemente accompagnato in pronto soccorso. John, infatti, mentre la porta gli veniva chiusa in faccia, intravvide per un attimo, solo per un attimo, la moglie di quell’uomo che piangeva appoggiata a un muro. Ma non disse niente; era estasiato da quell’ambiente, da quel profumo, che non voleva perdersi un solo attimo di quel meraviglioso tour guidato. La moglie, al suo fianco, muoveva le gambone grosse come sequoie secolari con l’agilità di una gazzella e stringeva forte il suo braccio, come una bambina eccitata dalle luci di un luna park.
E questa era solo la prima tappa, chissà che meraviglie li aspettava il proseguo del viaggio. Anche se nessuno aveva letto bene la brochure; anche se nessuno era a conoscenza dell’esistenza di una seconda, o di un’eventuale terza tappa. Ma in ogni caso questa era per tutti la prima.
A quel punto della visita la ragazza dentro la sua stretta gonna faceva fatica a tenere il passo dei vecchietti ringalluzziti dall’atmosfera. Correvano come una mandria di gnu nella prateria e quasi nessuno di loro era più interessato al suo culo. Volevano vedere tutto e subito e non avevano più voglia di ascoltare le sue spiegazioni.
Dopo circa un’ora di lunga ed estenuante camminata sotto le luci al neon, con qualche piccola pausa per ammirare qualche scorcio pittoresco, giunsero alla sala delle autopsie guidati dalla ragazza con le scarpe in mano. I piedi sopra quei trampoli le facevano male e ormai l’ambiente si era riscaldato e non ci formalizzava più. Poteva proseguire a piedi nudi nell’indifferenza generale.
Lei aprì le porte della sala nel silenzio più assoluto di tutto il gruppo. Non si udivano più né rantoli, né gorgoglii catarrosi. Erano tutti in attesa che si aprisse il sipario sulla scena più importante.
La guida ci mise del suo meglio per creare la giusta atmosfera, la giusta enfasi, al momento dell’apertura delle porte. Spinse piano, incurante del fatto che l’apertura dell’ennesimo bottone aveva fatto svettare un capezzolo fuori dalla camicetta. Ma tanto nessuno ci badava più, erano tutti senza fiato, impazienti di vedere quello che c’era dentro. In tutti i sensi.
Entrarono in religioso silenzio. Le luci si accesero con un colpo a effetto, un effetto domino altamente scenografico che lasciò a bocca aperta i turisti. Prima si illuminò il primo tavolo con una donna aperta dal collo sino al pube e le interiora bene in vista. Il medico accanto si inchinò per ricevere il meritato applauso.
Poi la scena venne conquistata dal secondo tavolo dove il gruppo poté ammirare un cranio aperto e una bella cascata di globuli rossi da un canale di scolo.
Infine s’illuminò anche il grande tavolo centrale dove era disposto il corpo nudo del loro ex compagno di viaggio, fresco fresco, appena deceduto. Pronto per essere aperto in diretta.
Il gruppo si avvicinò spingendo da parte l’avvenente guida. Il chirurgo iniziò a incidere le carni dell’uomo e aprì gli squarci, palpeggiò gli organi, i polmoni anneriti, il cuore pallido, il fegato necrotico e i reni rinsecchiti. I turisti gli stavano dietro e osservavano incantati; qualcuno di loro ebbe un’inaspettato orgasmo, qualcuno pianse per l’emozione e il catetere di John si incastrò in un tubo di drenaggio causando un’abbondante fuoriuscita di urina sulla gamba della guida. Lei si ritrasse inorridita ma non disse nulla, mentre il liquido caldo e odoroso le colava dal polpaccio sino a raggiungere lo smalto rosso delle dita dei piedi. Non poteva disturbare i lavoro del patologo, questi erano gli accordi: rispettoso silenzio qualunque cosa accadesse.
Il medico finì l’autopsia in un luccichio di bisturi taglienti, contenitori colmi di formalina, provette e vetrini con campioni di tessuto e fluidi sottratti al corpo dell’ex compagno di viaggio degli spettatori. Sul tavolo, disposti come gioielli in una vetrina prestigiosa, facevano bella mostra di sé: la tiroide, la milza, i reni, il pancreas, il colon, le gonadi e il fegato sezionato.
Il gruppo non seppe resistere alla tentazione di un lungo e caloroso applauso. L’anatomopatologo accennò un inchino di ringraziamento e si avvicinò alla gnocca. Lei li consegnò l’elenco dei partecipanti al viaggio con tutta una serie di dettagliate informazioni sulla collezione di patologie delle quali ognuno di loro era afflitto. Il medico lesse con attenzione il documento e dopo averlo fatto, si tolse gli occhiali con un guanto ancora sporco di sangue, scrutò con cura i vecchi che aveva di fronte. Uno ad uno. Poi fece un cenno alla ragazza e lei lasciò la sala e si richiuse la porta alle spalle. Nessuno la seguì.
Il medico fece l’appello e ad ogni chiamata un uomo o una donna faceva un passo avanti, si liberava dai vestiti e si stendeva sul tavolo autoptico con le proprie forze o con l’aiuto del gruppo. Dopo che il bisturi del chirurgo terminava il lavoro su un corpo veniva tirato giù garbatamente e veniva sostituito da un altro. Con calma. Senza fretta. In silenzio.
Uno alla volta tutti quei corpi liberarono la propria anima.
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