Bart: Guardavo noiosamente le cose sparse sul tavolo, e mi sentivo sprofondare nel vuoto. E’ stato così che ho tirato fuori dagli scaffali quasi fosse un salvagente, un vecchio disco di punk. Un gesto banale che involontariamente ha riaperto un percorso emozionale, ma anche politico e sociale che mi fece sentire orgoglioso di appartenere al proletariato, in quel tramonto di fine anni settanta. E me la ricordo la sensazione che provai ritornando a casa quel pomeriggio sul bus di linea, con la che gente che mi guardava con fare schifato per come ero abbigliato. Mi sentivo con le spalle al muro e in forte imbarazzo, ma a un certo punto con uno sguardo sprezzante, fiero, orgoglioso, li attaccai. Avvertivo dentro di me di non essere più solo, quella nuova musica mi stava cambiando dal di dentro, come credo lo avesse fatto con quei ragazzi che pullulavano per le strade di una Londra messa a ferro e fuoco, da quella nuova sballata rivoluzione. Da quel momento non ho più abbassato gli occhi di fronte a nulla e a nessuno, quel movimento che fu breve ma intenso racchiuse tutta la mia rabbia di adolescente, e mi spinse a venire fuori a prendere coscienza delle cose che mi circondavano. Il punk mi ha riempito i polmoni, la mente, il cuore, mi ha fatto sentire libero di esprimermi, mi ha detto che ce la potevo fare, e che niente mi era precluso. È stato la mia resistenza al potere, una sensazione pazzesca, ancora oggi incredibile. In quel giorno umido e svogliato un semplice gesto ha riaperto una porta che per troppo tempo ho tenuto sbarrata, come a proteggere quelle emozioni forti e profonde. Così mi sono messo a rovistare in quei vecchi cassetti, e mentre frugavo ho anche pensato che nessuno racconta più di quella spazzatura musicale, (così veniva etichettato il punk dai suoi detrattori) che ha fatto germogliare fiori bellissimi, anche se rimasti isolati ai bordi del mondo. Dopo un paio di post sul blog con dischi che pensavo smarriti nei meandri dell’oblio, Ant si è sentito toccato nel vivo dei ricordi, e anche altri amici mi hanno sollecitato a continuare. Però per un attimo è bene che riavvolga il nastro dei ricordi, è riparta da quando giovanissimo mi sono imbattuto nel rock’n’roll. Allora ebbi la fortuna di incontrare un ragazzo molto più grande di me, che possedeva la più incredibile delle discografie rock che abbia mai spulciato in vita mia. Non mancava nulla in quegli scaffali, tutto quello che il mercato discografico aveva prodotto in materia di rock dagli anni 50 in poi, era lì a portata di mano. Certo alla base c’era una possibilità economica che non gli difettava, perché la musica è sempre costata parecchio. Ricordo che per acquistare un impianto stereo appena dignitoso, occorreva un esborso di milioni di lire, e per accaparrarsi un vinile ci volevano un botto di quattrini, che un ragazzo di periferia non poteva avere. Per questo ho registrato musica in centinaia di cassette Tdk, e Basf, per uno squattrinato come me era il solo modo democratico di poterla fruire. E’ grazie a quei “basament tapes” che ho scoperto tutte quelle band che oggi vengono definite come classic rock, in uno stupore cosmico che mi isolò quasi del tutto dai miei coetanei. In quella miniera musicale attinsi anche rudimenti di musica jazz, e rafforzai la mia passione per il blues, un genere molto affine al punk, più di quanto si possa immaginare. So bene che senza quella gran botta di culo, mi sarebbe stato impossibile avere tutti questi apprendimenti. Gli sarò per sempre grato a quel ragazzo, per avermi aperto le “porte della percezione”. Oggi è più facile scoprire musica, e questo di conseguenza può aiutare a consolidare uno spirito critico evoluto e libero, anche se si rischia un overdose di ascolto, dato che si passa da un disco a un altro in modo quasi compulsivo, senza avere il tempo di assimilare le canzoni, di interiorizzarle. Quando giravano solo i vinili, un disco veniva “vivisezionato” ascoltato fino alla nausea, e alla fine si conoscevano a memoria tutti i passaggi delle canzoni. Perfino cosa c’era scritto sul retro della copertina, i musicisti che ci suonavano, e anche i turnisti e le coriste. Ma se da un lato oggi questa fruizione definiamola “liquida” ha tolto cura al dettaglio, adesso c’è molta più equità perché chiunque può farsi una cultura musicale. Una cosa che ai miei tempi, era relegata quasi esclusivamente a chi aveva possibilità economiche sopra la media.
Ant: Non posso fare altro che sottoscrivere in toto quello che afferma l’amico Bart. I ricordi sono più o meno gli stessi anche se io sono arrivato con qualche anno di ritardo, nel senso che non ho vissuto in diretta i tumulti del 1977. Ero troppo piccolo e senza orecchie. Ma qualche anno dopo ho iniziato ad applicare il “salto della merenda” a scuola per racimolare spiccioli da utilizzare per i primi, costosissimi, vinili. Con la dieta forzata sono venuti fuori i primi dischi da divorare e mandare giù a memoria, cosa impensabile ai giorni nostri. Poi, con i primi lavoretti extra scolastici arrivarono anche il chiodo, gli anfibi e le occhiatacce dei benpensanti. Le “porte della percezione” nel mio caso le ha aperte mio fratello maggiore con i primi dischi che arrivavano a casa (di solito in prestito) di Bowie, Lou Reed, Led Zeppelin e Deep Purple e subito dopo i primi vinili punk (Ramones, Television, Damned, Sex Pistols, Clash, London, Nina Hagen, Stranglers) con la loro carica travolgente. “Tutti contro tutti”, parole di fuoco e musica incendiaria che spazzò via in un colpo solo la musica cosiddetta colta, il rock pomposo e onanista degli anni 70 e le rockstar, che poi sarebbero rientrate in scena poco dopo, ma questa è un’altra storia. Era tutto un fiorire di rustiche fanzine fotocopiate, piccole etichette artigianali, dischi fatti a mano e innumerevoli band che nascevano e morivano nelle cantine per il tempo di un solo 45 giri o una cassetta registrata in casa. Non era così per tutti, ovviamente, perché le major come sempre avevano intuito l’odore dei soldi e quindi iniziò la corsa a chi ingaggiava le band più note e vendibili alle masse. Già nel 77 circolava la voce che il punk appena nato era definitivamente morto con la firma dei Clash per la CBS. Era il tempo della “grande truffa del rock’n’roll” di mister McLaren e le firme milionarie dei Sex Pistols con Virgin ed EMI, ma anche questo ci poteva stare: il punk si cibava alla mensa dei suoi nemici, sfruttava il denaro del sistema. Ma era per una buona causa, una sorta di “esproprio proletario” in casa degli odiati “ricchi”, sino a quando anche il povero punk arrabbiato diventò anche lui ricco e perse per un attimo la strada. Il tempo però riporta tutte le cose al loro posto, e anche il punk si è ripreso con il passare degli anni il suo ruolo ai margini della società, nel più profondo underground. Nonostante qualche concessione alle mode, qualche infiltrato che voleva riempirsi la pancia, e anche qualche clamoroso successo commerciale assolutamente inspiegabile. Ma lo spirito del punk, nonostante tutto, ancora oggi vaga nei meandri più oscuri della scena indipendente, contro il sistema, contro tutto. Forse oggi non è sempre vero che per suonare punk non bisogna necessariamente saper suonare (il mitico Elvis Costello dei tempi d’oro affermava che era più importante saper tenere bene in mano una chitarra che saperla usare) perché ora mi pare che tutti (o quasi) sappiano usare gli strumenti un po’ meglio rispetto alle origini della specie. Ma è anche vero che in questo genere, “democratico” più di qualsiasi altro, chiunque può prendere in mano una chitarra attaccare lo spinotto e darci dentro senza che nessuno abbia niente da dire. L’unica cosa importante è avere qualche straccio di idea, il resto viene da sé. Di cero, come dice giustamente Bart, ora che siamo in un’epoca di musica facile da fruire, a causa del download selvaggio che porta a un mostruoso accumulo di freddi e grigi mp3, un po’ si è spenta la poesia di quei momenti. Ora la musica è veloce perché la gente ha fretta, non perché c’è l’urgenza di comunicare qualcosa nel modo più diretto possibile. Tuttavia l’underground pullula ancora di band valide e dischi che non svaniscono nel nulla dopo un solo ascolto, il problema è solo riuscire ad acchiapparli quando ci passano sotto il naso e, quindi, distinguerli dalla massa amorfa di musica di plastica che intasa il web. A questo proposito dovrebbe servire un blog come questo, o come il bellissimo Dustyroad dell’amico Bart, per dare qualche input ai lettori, seppur filtrato dai gusti personali, giusto per non disperdere nell’ambiente i suoni che meritano di soggiornare nei nostri timpani; magari non in quelli di tutti, ma almeno di una parte dei musicofili all’ascolto.
Bart: Il termine punk –rock coniato per descrivere la musica era già stato utilizzato nel 1972 da Lenny Kaye (in seguito chitarrista del Patti Smith Group) che sbarcava il lunario scrivendo per le riviste musicali Jazz& Pop, Crawdaddy, Rolling Stones. Nelle note di accompagnamento all’antologia Nuggets, un disco che racchiudeva un mondo di 45 giri di musicisti occulti degli anni sessanta, a sorpresa la parola punk fece la sua comparsa. Il termine punk ha molti significati letterali: “giovane delinquente”, “omosessuale”, “persona che non vale niente”. Lenny Kaye adoperò questo termine per semplificare il convulso piacere che viene a stare sul palco. Il punk questo nuovo modo di partecipazione sovvertiva le regole con una forma di rifiuto delle classi dominanti, anche se assorbiva elementi provenienti dal glitter-rock, dal proto-punk americano, dal pub-rock londinese, dal Nothern Soul, e per finire al reggae giamaicano. Una generazione composta da giovani anarchici, gente proveniente dalla sinistra radicale, disillusi, spazzarono via la cultura hippy fino allora fonte principale d’ispirazione nel rock’n’roll. Il locale CBGB’s (Country, Bluegrass, Blues and other music) sito al 315 della Bowery nella Big Apple, era gestito da Hilly Kristel. Fu qui che nel 1974 nacque la cosiddetta “Blank Generation” movimento che prese il nome da una canzone del bassista Richard Hell, e dalle quale Malcom Mc Laren allora manager delle New York Dolls gruppo di punta dell’underground musicale newyorkese, copierà gli atteggiamenti, l’abbigliamento, e le gesta per fare sbocciare il fenomeno punk. Lo racconta lo stesso Malcom McLaren che Richard Hell fu un’autentica fonte d’ispirazione, e ricorda anche di aver detto ai Sex Pistols di scrivere un pezzo come Blank Generation. La loro versione fu Pretty Vacant, una quasi fotocopia. I protagonisti di questa scena da Patti Smith, ai Television, ai Talking Heads, dai Blondie, agli Heartbreakers, verranno immortalati nella pellicola del film di culto del giovane regista Amos Poe, Blank Generation. I Ramones i Dead Boys, Mink De Ville, con le loro canzoni al vetriolo, furono gruppi di punta del locale. Richard Hell ricorda che il CBCG’s era il posto giusto, in cui accadevano le cose più importanti in materia di rock alternativo. I legami che uniscono le culture giovanili bianche, alla classe operaia negra, sono sotto gli occhi di tutti. Esistono una miriade di musicisti bianchi, che hanno suonato insieme ad artisti negri. Penso al jazz, ma anche al blues rivisitato in chiave elettrica, che ha fatto la fortuna di tante star del rock negli anni sessanta e settanta. L’incontro del punk con la musica reggae, fu invece una predominante dei Clash. Uno dei gruppi più politicizzati dell’intero movimento punk, insieme agli irlandesi Stiff Little Fingers. Joe Strummer e soci assorbirono quello stile da strada dei negri della Giamaica. L’uniforme da combattimento con le figure caraibiche Dub e Heavy Manners, i pantaloni stretti di tessuto ingualcibile, le scarpe e le ciabatte nere, i capelli alla gangster, furono adottati in tempi diversi dai vari membri del gruppo. Il loro primo 45 giri fu “White Riot” (1977) che parlava degli scontri dei giamaicani di Londra contro la polizia, a causa degli incidenti razziali avvenuti durante il Carnevale di Notting Hill, del 1976. L’identificazione del punk con la cultura negra inglese fu rappresentato quasi esclusivamente dalla ribellione, e dalla tensione, che entrambe le musiche provocano. Totalmente diversi poi, per trovarvi altri contatti. Il punk con la sua ribellione rispondeva all’aumento della disoccupazione, alla riscoperta della miseria, alla depressione, teatralizzando quella che fu chiamata la decadenza dell’Inghilterra. Il suo immediato successo fu un linguaggio accessibile a tutti, ma anche quello di fornire risposte. Il punk con il suo linguaggio ibrido dove confluivano immagini di mutamenti immediati, diede speranza alla giovane e disillusa classe operaia inglese, che sentii il bisogno di ideare nuove forme di rivolta. Il punk riportò in auge i suoi 4/4 del rock’n’roll anni cinquanta spazzando via in una notte quei dinosauri atrofizzati del prog-rock, musica in auge durante gli anni settanta. Un genere assai complesso il progressive, composto da lunghe suite dalla durata di 20/30 minuti con un approccio strumentale tendenzialmente virtuosistico, che utilizzava una strumentazioni molto allargata, in cui vi era anche un massiccio uso di tastiere, e in particolare dell'organo Hammond e del Mellotron. Ma pure di strumenti a fiato, e alle volte di intere sezioni d'archi o orchestre. Anche la grafica e i caratteri tipografici impiegati sulle copertine dei dischi punk, e sulle fanzine erano omologhi al suo stile anarchico e sotterraneo. La busta interna della copertina del disco dei Sex Pistols “God Save The Queen” (1977) sarà trasformata in T-shirt e manifesti. In Italia tra il 1977 e il 1980 il punk inglese esercitò una forte influenza sui giovani disadattati, pur se in leggero ritardo rispetto agli altri paesi. La concentrazione di gruppi interessati a questa nuova forma di espressione musicale, fu circoscritta nell’area di Bologna, e nei circuiti underground milanesi. Grazie al punk ci fu una buona proliferazione di etichette discografiche indipendenti, che ebbero in qualche caso anche una relativa fortuna.
Ant: L’esplosione punk nel nostro benamato stivale arrivò in ritardo (come sempre) e, in un primo momento, non ebbe grande impatto sul nostro modesto panorama musicale. Inizialmente questo avvenne per un equivoco di fondo; probabilmente dovuto a certi atteggiamenti e simboli provocatori - quali ad esempio le svastiche utilizzate dai Pistols - che vennero travisati, forse anche a causa della scarsa conoscenza della lingua inglese. Del resto erano i tempi dei cantautori impegnati, delle proteste di piazza e dei moti giovanili post 68 che ancora agitavano le nostre città. Quindi si preferivano parole chiare e inequivocabili rispetto alle provocazioni politicamente scorrette del punk. O forse semplicemente era la cronica carenza di cultura rock della nostra fauna a chiudere parzialmente le porte alla rivoluzione punk. Ricordo ancora una grottesca recensione di “Fresh Fruit For Rotting Vegetables” dei Dead Kennedys su Ciao 2001 dove lo scribacchino di turno si sentiva disgustato da una band che urlava di “uccidere i poveri”, senza aver capito un cazzo di quello che stava sentendo, ammesso che lo abbia mai fatto. Nonostante questo alcune radio libere e un certo fermento sotterraneo permisero alla scena di espandersi in qualche modo, segnando la via al punk italiano che qualche anno più tardi recuperò il tempo perso. In principio tutto si svolse in quel di Bologna grazie l’Harpo’s Bazaar e successivamente l’Italian Records, quindi band come Windopen, Skiantos, Luti Chroma, Kaos Rock o Kandeggina Gang, che ebbero buona visibilità grazie alla Cramps Records e alla sua collana di 45 giri “Rock 80”. Ma erano, appunto, gli anni 80 e in terra d’Albione il punk stava già mutando in new wave e post punk (il Great Complotto di Pordenone, i Gaz Nevada erano già sintonizzati sulle stesse onde). Conseguentemente era più questa seconda mutazione del virus ad approdare sul nostro territorio, forse a causa del fuso orario o alla scarsa informazione. Bisogna tenere presente che all’epoca non esisteva il web e le radio che trasmettevano musica alternativa erano ben poche. Ma, si sa, noi italiani (me compreso) non abbiano fretta e ci siamo ripresi la scena con gli interessi. Arrivarono le riviste specializzate, dopo Ciao 2001, Popster (poi mutata in Rockstar) e il Mucchio Selvaggio, si affermò prima delle altre la mitica Rockerilla, vera e propria bibbia della musica indipendente in Italia. Poi ne arrivarono tante altre (penso a Blast!, Dynamo, Psycho, Bassa Fedeltà, Rumore, :Ritual:) ma quelle pagine in bianco e nero, che nel lontano 1978 sotto forma di fanzine e nel 1980 come vera e propria rivista musicale, hanno aperto un mondo sconosciuto agli intrepidi ascoltatori italici (me compreso). Il punk e la new wave, non erano più oggetti misteriosi provenienti da un altro pianeta.Quindi dopo i moti anarchici, i grandi concerti e relativi disordini, le contestazioni a Bologna durante il concerto dei Clash, si aprì infine la strada al movimento hardcore italiano, ancora oggi rispettato in tutto il mondo e oggetto di grande culto da parte degli appassionati di ogni latitudine. Nacquero la T.V.O.R., mitica etichetta torinese, l’Attak punk, numerose fanzine e innumerevoli band che hanno fatto la storia della musica indipendente: Raw Power, Negazione, Indigesti, Wretched, 5° Braccio, Dioxina, Declino, Peggio Punx, Raf Punk, CCM, Kina, Franti, Crash Box, Upset Noise, Eu’s Arse, Atrox, I Refuse It, Punk Sound Against (della mia terra la Sardegna) e tantissimi altri. I centri sociali finalmente si aprirono e lasciarono scorrere il fiume che ormai aveva raggiunto la piena e, soprattutto, la nuova onda era diventata pressoché immune da sospette e pericolose contaminazioni destroidi. A dire il vero qualche dubbio persisteva ancora soprattutto verso qualche band della scena Oi! o anche verso qualche grande band incompresa (almeno nella fase iniziale) quali ad esempio i Disciplinatha di “Abbiamo pazientato quarant’anni”, ma questa è un’altra storia. Intanto il punk era stato sdoganato e aveva messo radici anche nelle nostre feritili terre, al di là dei pregiudizi del passato e dei dubbi del presente. Oggi infatti la nostra scena indipendente pullula di un numero impressionante di band che si rifanno in qualche modo alla scena punk in tutte le sue forme e mutazioni. Perché se è vero che da noi “mode”, tendenze e idee arrivano sempre con un po’ in ritardo è anche vero che quando ci appropriamo di una qualsiasi materia siamo in grado di gestirla e plasmarla come e meglio degli altri.
Bart: Una parte predominante del successo del punk e del suo mantenimento lo ebbero i media. Nonostante avessero creato ad arte una campagna pubblicitaria di denigrazione questa funzionò all’inverso, dando la possibilità al punk di farsi conoscere a livello mondiale. Bisogna anche riconoscere il grande apporto che le fanzine (oggi si potrebbe parlare di blog) giornali autoprodotti ciclostilati, o fotocopiati, per lo più scritti da appassionati di musica e distribuiti attraverso i negozi di dischi che trattavano solo di punk, diedero per la sua diffusione. Ne nacquero una miriade, la più famosa di esse fu “Sniffin’ Glue” fondata da Mark Perry. Memorabile la copertina che mostrava tre posizioni della dita sulla tastiera della chitarra con sopra l’intestazione: Ecco un accordo, ecco due accordi, ora formati un tuo gruppo. Per quanto riguarda il mercato discografico il punk si avvalse di proprie etichette, la cui sopravvivenza commerciale era però molto complicata. Per la diffusione della propria musica i gruppi punk ricorrevano anche alle autoproduzioni di nastri registrati con apparecchiature amatoriali, solitamente veniva usato un registratore quattro piste. Musicassette che le stesse band vendevano durante i loro concerti, o allegavano alle fanzine. Certamente questi prodotti non erano eccelsi a livello auditivo, ma servivano come mezzo per farsi conoscere. Non dimentichiamo che il motto del punk era che chiunque potesse suonare musica, anche senza averne una conoscenza tecnica adeguata. Questo fu uno dei messaggi che riuscì ad imprimere maggiormente, tanto che in quel periodo ci fu una proliferazione di giovani pronti a prendere uno strumento in mano. Il punk fu davvero importante dal punto di vista sociale, musicale ed estetico. Le sue origini sono nella classe operaia, che si opponeva ad un’idea di società elitaria. E la rivolta fu innanzitutto estetica, fatta con un guardaroba ripreso dal modo di vestire di Richard Hell; collari chiodati e catene, creste dritte, giubbini di pelle, spille da balia. E’ grazie al punk se piercing e tatuaggi sono stati sdoganati. Il punk era la vera faccia della disillusione, e della rabbia. Detestava l’utopia e l’ipocrisia hippie, e invocava il diritto alla semplicità. Ci ha lasciato quella propensione al fare da soli, l’unica arma che abbiamo per sfuggire al controllo del potere, in tutte le sue forme. Dio salvi il Punk.
I due "coglioni romantici":
Punk's not dead
Questo post scritto a due mani è il frutto della collaborazione con l'amico blogger Bartolo Federico e il suo incredibile blog Dustyroad (http://dustyroad-federico.blogspot.it). Il tutto nasce dalla splendida serie di post sui grandi dischi del passato, scovati nel più profondo underground, che potete trovare nelle pagine del suo blog in queste settimane. Si tratta di band e dischi dimenticati, o comunque poco conosciuti alla massa, sia del periodo d'oro del punk sia quelli che partendo dalla rivoluzione punk si sono evoluti in sonorità nuove e irripetibili. Quindi abbiamo deciso di approfondire il discorso sulle origini della specie con un approccio diverso in questo articolo, una sorta di dialogo a distanza. Stay tuned...
grazie fratello, per il supporto e la condivisione. Questo è puro vero rock'n'roll.punks not dead.
RispondiEliminaGrazie a te! Mi pare che il primo esperimento sia riuscito...se ti va in futuro si potrebbe fare un bis su qualche altro argomento. Ciao bro'
RispondiEliminaAssolutamente si.
EliminaOk Grazie fratello. Tra un po' lascio un ultimo post e parto, quando rientro ci si sente per un'eventuale idea per un altro post a due mani. Ciao Bart!
Elimina