Heroin
Mr. Larson era impegnato a studiare le carte in suo possesso. Le girava e rigirava tra le dita, poi, per riconquistare la concentrazione che ogni tanto gli sfuggiva, le spargeva sopra il tavolino e passeggiava nervosamente, avanti e indietro, rincorrendo i suoi pensieri e le idee fluttuanti dentro il cranio.
Il caso era alquanto intricato. Non si era mai vista una roba del genere e non essendoci precedenti nella casistica venivano a mancare i punti di riferimento sui quali costruire un ponte verso la soluzione. Questa volta non aveva trovato niente di utile tra le migliaia di scartoffie custodite e documentate dai solerti burocrati degli archivi della polizia di stato. Per cui non era affatto semplice avere buoni risultati in modo rapido o anche solo un abbozzo d’ispirazione per il proseguo delle attività, anche per uno esperto e infaticabile come lui.
Gli uomini erano tutti fuori, impegnati in un’operazione su larga scala che prevedeva la perlustrazione palmo a palmo di tutto il quartiere, alla ricerca di indizi, prove e testimonianze più o meno volontarie.
Non era per niente facile far parlare quella gente. La maggior parte delle famiglie erano chiuse e omertose e, di solito, non rispondevano alle domande. Tanto meno erano disposti a rendere dichiarazioni spontanee o a collaborare con gli inquirenti di loro spontanea volontà, spesso neanche sotto tortura.
Ma Larson, in tanti anni, era riuscito ad addestrare bene la sua squadra; lui ci faceva il bagno nella psiche degli abitanti di quel quartiere e riteneva di essere in grado di carpire tutte le informazione di cui aveva bisogno, anche da bocche chiuse e cuori sigillati. I suoi uomini avevano appreso la lezione al meglio e, spesso, riuscivano anche ad applicare sul campo le nozioni che lui gli aveva inculcato con innumerevoli, e amorevoli, sforzi.
Questa volta, però, era diverso. Le porte non si aprivano se non a spallate e quelle bocche erano ancor meno loquaci del solito, pareva che le avessero sigillate con l’attak e gli uomini non erano in possesso di un adeguato antidoto, né di una combinazione in grado di aprirle.
Larson era stanco di girare intorno al tavolino. Era stanco di rincorrere le idee sfuggenti e le ipotesi svolazzanti. Gli mancavano poche pagine per completare il quadro, ma tra queste c’era anche l’ultima dove, di solito, si trovano scritte le soluzioni.
Si sedette insieme alle sue carte. Provò a liberare la sua mente dai pensieri prigionieri, dai preconcetti incollati sopra ai neuroni e dalle nozioni inculcate dalla logica. La soluzione si doveva cercare altrove. Ne era convinto.
L’orologio a muro continuava a battere i minuti come se fossero grossi chiodi che richiedevano pesanti martellate per poter procedere nella loro corsa. Lui fissava le lancette-martello con una strana espressione stampata sul volto: una via di mezzo tra un profondo interesse e una decisa torsione scrotale.
Dopo qualche minuto di sguardi languidi e occhi dolci, il fascicolo con il quale stava lavorando mise a tacere il martello, i chiodi e il tempo frettoloso.
Larson sospirò soddisfatto. Si alzò per raccogliere l’incartamento e spinse via con un piede i resti dell’orologio.
Sistemò nuovamente il suo culo sulla sedia.
Risistemò i fogli sul tavolo.
Gli occhiali gli scivolarono sulla punta del naso e il mento s’incastrò nell’incavo tra le mani incrociate. Ora si sentiva più tranquillo. Era l’orologio che turbava i suoi pensieri. Ne era convinto. Colse al volo una ventata d’ispirazione e la distese sulla tastiera del computer, alla ricerca di un qualcosa di sfuggente che, però, gli ricordava qualche altra cosa di esistente e palpabile, oltre che verificabile.
Ecco trovato…
“Sudan, dodici aprile 1986. Finalmente è stato localizzato il covo delle formiche tossiche dove queste preparavano le dosi per lo spaccio…”
E ancora.
“Delhi, cinque gennaio 1979. Arrestata l’ape regina e il suo fuco. L’accusa è pesante: detenzione e spaccio di droga…”
Larson riportò in sede gli occhiali. Era soddisfatto: la sua infallibile memoria non lo aveva tradito. Neanche stavolta.
C’erano stati altri casi nel mondo che riguardavano l’uso di sostanze stupefacenti da parte degli insetti. Anche se tutto ciò che trovò su internet risaliva a una trentina di anni prima e aveva avuto luogo in città e paesi remoti. C’erano pur sempre dei precedenti; una base su cui lavorare e da cui prendere spunto.
In città era da parecchio tempo che circolavano insistentemente le voci di insetti che facevano uso di droga, ma erano solo voci, appunto, e alla polizia non vi avevano prestato ascolto più di tanto. Le cose cambiarono quando iniziarono ad arrivare le prime denunce e le prime segnalazioni di bande di spacciatori, alati e non, che avevano iniziato ad agire allo scoperto, anche in pieno giorno. A quel punto bisognava intervenire con decisione; le indagini portarono alla luce un fenomeno talmente vasto da richiedere un intervento capillare da parte delle forze dell’ordine. Ogni città, ogni quartiere, ogni casa, dovevano essere ripuliti per poter permettere a larve e insetti di buona famiglia di poter circolare tranquillamente per strada, giocare, pungere e succhiare il sangue agli umani, andare a scuola o a lavoro, senza essere importunati da malviventi e spacciatori. Ne valeva dell’onore del corpo di polizia.
Ogni notte le retate della polizia riportavano un bilancio sempre più preoccupante, con centinaia di arresti, laboratori clandestini che spuntavano come funghi e con uguale velocità venivano chiusi, e svariati decessi per overdose.
Il problema era diventato troppo grande, anche per un topo esperto come Larson. Beh, si, Larson è un topo. Non ve lo avevo detto? No? Del resto se le formiche si possono drogare non vedo perché un topo non possa fare il poliziotto.
In ogni caso i cenni ritrovati sul web a proposito di casi analoghi non furono di grande aiuto a Larson, perché in quei paesi utilizzarono il DDT per ovviare al problema, ma questo non si poteva fare qui, altrimenti avrebbero avuto grossi grattacapi con le associazioni per i diritti degli insetti, con la Chiesa e i sindacati. In altri tempi, forse, si sarebbe potuto fare qualcosa di analogo, ma ora no. Non era assolutamente possibile. I tempi erano cambiati.
La cosa che turbava maggiormente la materia grigia sotto il cappello di Larson era il perché quegli stupidi insetti usassero l’eroina e non un’altra sostanza stupefacente più facile da recuperare e da assumere. Nel mercato clandestino si poteva trovare di tutto e per tutte le tasche e, inoltre, l’eroina non era più di moda neanche tra gli umani, i quali di devianze e di usi intensivi o impropri di sostanze illecite se ne intendevano più di tutti.
Ma, oltre questo, l’aspetto di questa vicenda che più gli rodeva le interiora era capire come diavolo facessero delle piccole formiche senza mani a preparasi e iniettarsi la droga.
Nei primi giorni seguenti l’apertura delle indagini aveva anche costretto uno degli arrestati, un coleottero ceco e quasi completamente sordo, a fare una dimostrazione pratica. Gli aveva fornito tutto l’occorrente: eroina in polvere, cucchiaino, carta stagnola, accendino, siringa, laccio emostatico e pistola puntata alla tempia, così tanto per essere sicuro di ottenere la massima collaborazione. Ebbene l’insetto non riuscì ad utilizzare correttamente il materiale e finì per essere impanato nella polvere, pronto per la frittura. In ogni caso riuscì ad avere buona parte degli effetti destabilizzanti della droga che, evidentemente, era riuscito ad assumere per inalazione. Eppure Larson era certo che gli insetti l’assumessero per via intra venosa. Non aveva alcun dubbio. Ne aveva avuto conferma anche dai risultati delle autopsie effettuate sui corpi di decine e decine di insetti deceduti per overdose.
Il mistero andava infittendosi e, con esso, anche le pressioni da parte dei politici: nell’ufficio del capo della polizia c’era un continuo via vai di segretari di partiti, ministri, sindaci e vari titolari di poltrone, per lo più nullafacenti, che reclamavano la risoluzione definitiva del problema. L’opinione pubblica e la stampa facevano pressione sui politici e i politici premevano a loro volta. E si, tutto il paese soffriva di pressione alta. Anche Larson.
Ma tutto ciò non gli impediva di prendersi tutto il tempo che riteneva opportuno. Nonostante le urla al telefono del capo e le raffiche ad altezza d’uomo (o meglio, di topo) provenienti dai vari telegiornali e talk show zeppi di esperti e opinionisti con valigie colme di soluzioni per tutti i mali.
Poi, non aveva più il tormento dell’orologio a muro e, anche se i solchi nel pavimento intorno al tavolino stavano assumendo le sembianze di una trincea, tanto erano profondi, confidava nel suo intuito per risolvere il caso.
Nel corso della sua carriera aveva affrontato ben di peggio e ne era venuto a capo brillantemente, collezionando una lunga serie di encomi solenni ed elogi da parte delle personalità che contano, o contavano o avrebbero contato successivamente.
Ora la situazione era intricata, ma non impossibile. La razione di formaggio gli era stata ridotta, in attesa di risultati concreti. Ma lui, nella sua trincea, non se ne preoccupava: era impegnato a pensare e non aveva tempo per la pancia, né per altri quartieri del suo corpo, eccetto il cervello e il suo groviglio di dati, pensieri e cazzi vari.
Proseguì a girare intorno al tavolo e al fascicolo del caso, con gli occhiali appannati e le palpebre sudate. Sino a quando l’ennesima telefonata del capo lo costrinse ad abbandonare la trincea e a prepararsi all’azione sul campo di battaglia.
L’ordine era perentorio: arrestare tutti, tossicodipendenti, spacciatori, sospetti e simpatizzanti. Anche in caso di dubbio era vivamente consigliato optare per l’arresto. Nulla doveva essere lasciato al caso.
Larson si allentò il nodo della cravatta. Verificò l’arma e le munizioni e varcò l’uscio di casa per congiungersi con i suoi colleghi impegnati in un’operazione imponente, come non si era mai vista in città.
Fuori c’era il sole. I suoi raggi colpivano in basso, causando un fastidioso riverbero nei vetri appannati degli occhiali di Larson. Lui cercò di difendersi con una mano e riuscì a stento a scrutare la strada alla ricerca dell’auto di servizio che doveva arrivare a momenti per prenderlo.
Si voltò a destra e a sinistra, sotto l’ombrello protettivo del suo palmo della mano.
La strada era stranamente quasi deserta. Pochi passanti. Poche automobili. Pochi rumori.
Allentò ulteriormente il nodo della sua maledetta cravatta e fece saltare inavvertitamente il primo bottone della camicia: il collo sudato ne ebbe un grande giovamento e Larson sospirò con soddisfazione.
Per un istante chiuse gli occhi, per gustarsi meglio la liberazione dalla morsa del colletto e l’aria fresca che inondava piacevolmente i suoi polmoni. Quando qualcuno o qualcosa lo afferrò alle spalle e lo scaraventò a terra con violenza. Sentì un dolore lancinante lungo la schiena e sulla nuca, ma non riuscì a gridare né a muovere un solo muscolo. L’unica cosa che riusciva a vedere era il granito dei gradini di casa sua e lo vedeva da distanza ravvicinata, molto ravvicinata, sicuramente troppo ravvicinata. Il campo visivo era ridotto a pochi centimetri. Subito dopo la vista si appannò, ma stavolta la causa non era il sudore, né tantomeno il sole.
I contorni e la definizione dell’immagine davanti ai suoi occhi si facevano sempre più confusi e incerti. Il grigio del gradino andava sbiadendo velocemente e, per un attimo, solo per un attimo, il suo posto venne preso da lunghi baffi irti e fluttuanti e da una saracinesca di denti aguzzi e bianchissimi. Poi la visione si interruppe e il sole, il granito, i baffi e la strada sparirono nel buio e nel silenzio assoluto.
Meow…
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