Sono costretto a cospargermi il capo di cenere (o qualsiasi altra cose riteniate opportuno utilizzare) perché i Kampfar sino a oggi non li avevo mai presi in dovuta considerazione. Non so bene per quale motivo; probabilmente solo perché in ambito black mi sono sempre lasciato coinvolgere da altri soggetti quali Mayehm, Darkthrone, Satyricon o Immortal. O forse solo per un insieme di strane congetture del fato o del caso. È anche vero che non si può ascoltare tutta la musica che viene pubblicata nel mondo, soprattutto per chi come me ascolta e si nutre di tanti generi musicali, spesso in assoluta antitesi tra loro. Ma nel caso dei Kampfar, evidentemente, ho commesso un errore imperdonabile perché "Djevelmakt" è un gran bel disco, uno di quelli che fanno scoccare la magica scintilla che ti fa sospendere tutte le altre attività quando la musica si diffonde nell'aria. Quest'album dapprima ti fa abbozzare un sorriso, poi ti spinge ad alzare il volume e, infine, si impone su tutto il resto e ti costringe a occuparti solo delle note imponenti che scaturiscono dalle casse acustiche.
L'ascolto di questo disco mi ha spinto a cercare informazioni e altra musica di questa band, e solo adesso mi rendo conto del culto che si è creato intorno a questi quattro vichinghi. Le cronache narrano di dischi epocali quali l'esordio sulla lunga distanza "Mellom Skogkledde Aaser" o il primo EP omonimo, ma anche "Fra Underverdenen" del 1999 o "Kvass" del 2006. Ma, ripeto, non conosco bene questi dischi. Ne potrò riparlare con cognizione di causa solo tra qualche tempo, quando ne avrò spulciato a dovere i loro solchi.
Nella ricerca mi sono anche reso conto di averli in casa, anche se solo nell'anonimo (e crudele) formato mp3, cosicché non dovrei tardare troppo a recuperare il tempo perduto e potrò, finalmente, risciacquare i capelli.
"Djevelmakt" è il sesto album della band norvegese e giunge qui tra i comuni mortali a tre anni di distanza dal precedente "Mare." Dal 2010 non c'è più nella formazione uno dei due membri fondatori, Thomas, chitarrista e bassista della band dal lontano 1994 e, pare, anche il maggior artefice delle influenze folk, viking all'interno delle costruzioni sonore dei Kampfar. Il sostituto si chiama Ole Hartvigsen e svolge un lavoro eccellente alla sei corde. Completano la band il leader storico Dolk alla voce, Jon Bakker al basso e Ask Ty alla batteria.
Il disco è suddiviso in otto potenti tracce cantate in norvegese, ad eccezione dell'ultima "Our Hounds, Our Legion" che, come si evince dal titolo, si affida a vocaboli anglosassoni. Il viking-black metal proposto dai Kempfar è potentissimo, oscuro, trascinante, epico, moderno e al contempo debitore del classico black dei tempi d'oro. In linea di massima si viaggia su tempi medi, medio-alti, ma non mancano picchi di violenza pura, trascinati da velocissimi blast beat. In lungo e in largo nella scaletta compaiono ricami folk, pianoforte e tastiera, spettacolari parti orchestrali, e qualche voce pulita che ne arricchiscono l'atmosfera, donando un fascino elegante alle composizioni.
Ci si ritrova nel bel mezzo di un cupo bosco norvegese in pieno inverno, ma non si ha voglia di scappare, nonostante le gelide folate di vento e le creature poco raccomandabili evocate dai nostri.
Le malefiche "Swarm Norvegicus," "Kujon" o "De Dødes Fane" fanno il resto.
Grande album.
01.Mylder
02.Kujon
03.Blod, Eder Og Galle
04.Swarm Norvegicus
05.Fortapelse
06.De Dødes Fane
07.Svarte Sjelers Salme
08.Our Hounds, Our Legion
2014 - Indie Recordings
Volevo rispondere al tuo commento sul mio blog ,ma ho eliminato entrambi.scusami ant sono proprio con la testa nel pallone. ciao
RispondiEliminaFigurati, fossero tutti così i problemi del mondo... Ciao
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