La temperatura scese in picchiata d’improvviso, senza che ci fosse stato alcun segno premonitore nel corso della giornata. L’aria divenne gelida e il vento acquisì vigore e velocità, portandosi con sé una gran quantità di particelle d’acqua ghiacciata da sparare, quasi come se fossero micidiali proiettili, verso le cose e gli esseri viventi che si trovavano a portata di tiro.
Ma solo quando Jonathan si ritrovò con la testa zuppa d’acqua e parzialmente congelata si decise a chiudere la finestra. L’umidità era talmente elevata, e l’aria talmente fredda, che gli pareva di essere sotto una doccia nel bel mezzo dell’Antartide, all’aperto e con lo scaldabagno rotto.
Tuttavia Jonathan era talmente concentrato e immerso nelle sue attività che fino a quel momento non se ne rese conto, nonostante l’acqua e l’aria gelida fossero penetrate in ogni angolo della stanza.
Solo quando la penna si trasformò in un bastoncino Findus e il foglio di carta in un iceberg, con un laghetto sul cocuzzolo, prese atto della drastica variazione del clima.
A quel punto, costretto dalle circostanze e con la finestra chiusa alle sue spalle, spianò l’iceberg e lo trasformò in una pista di pattinaggio per il bastoncino Findus. Ci volle un’altra manciata di minuti affinché quest’ultimo riprendesse le sembianze originarie di una comune penna.
Intanto la testa surgelata continuava a grondare acqua come una cascata dei fiordi norvegesi. Dopo un po’, infatti, la pista di pattinaggio si trasformò in un pantano e Jonathan dovette abbandonare momentaneamente il suo piano di lavoro per cercare un rimedio alla situazione.
Si asciugò i capelli con un panno, ma si accorse che anche il pavimento era attraversato in lungo e in largo da corsi d’acqua e da un tappeto di grandine. Quindi provò a a tamponare con degli strumenti di fortuna quali un lenzuolo e una vecchia coperta, non aveva né tempo né voglia né le energie per asciugare bene e fare una pulizia più approfondita: il lavoro lo attendeva.
Inoltre le ginocchia non erano più quelle di una volta e non gli consentivano di piegarsi come avrebbe voluto, a prescindere dal numero di pinguini dispiegati sul pavimento.
Si sentiva vecchio, e in effetti lo era davvero, per questo motivo riteneva di non avere molto tempo a disposizione; doveva fare in fretta.
Riprese posto nella sua postazione di lavoro, ma per qualche minuto si ritrovò a cercare il filo del discorso nel bel mezzo del pantano surgelato, tra grumi di lettere, inchiostro semi freddo e ghiaccioli che una volta erano frasi compiute.
Finché una voce distante e indefinita gli ricordò che doveva finire il più velocemente possibile: il tempo è denaro, e lui non ne aveva molto da spendere; praticamente era al verde. Il giorno stabilito per ritirare la pensione era ancora lontano, viceversa il giorno in cui avrebbe dovuto salutare il mondo, le sue cose e i suoi ricordi, non doveva essere poi così distante. Anche se non era stato ancora riportato negli appunti sul calendario.
Intanto le intemperie lo costrinsero a trasferire lettere, parole e pensieri dal pantano a un nuovo foglio immacolato, asciutto e in perfetta forma fisica.
Doveva iniziare daccapo, nonostante la stanchezza, la vista che cominciava ad annebbiarsi e il sonno che bussava alla porta.
Ma poi, d’improvviso, un po’ come era avvenuto con la bufera di ghiaccio, si ricordò cosa stesse facendo e soprattuto perché. Quelle parole che solo un attimo prima gli apparivano vuote e senza un senso, acquisirono sostanza, grazie al risveglio del suo sistema di trasporto tra una sinapsi e l’altra che d’un tratto pareva funzionare alla meraviglia. Gli sembrò di essere diventato un capo treno svizzero e la cosa non gli dispiacque affatto. Mise a fuoco il problema e il ghiaccio si sciolse, la nebbia si diradò e i pinguini levarono le tende.
Ultimò il testamento molto più velocemente del previsto: tutto era chiaro e nitido, le parole fluivano senza sosta e la memoria non lo tradì, almeno non questa volta.
Tirò un sospiro di sollievo e, rigirandosi il manoscritto autografo tra le mani, si congratulò con sé stesso. A quel punto mancava solo una capatina dal notaio e il gioco era bell’è fatto.
I nipoti sanguisuga erano sistemati e anche quelle due vecchie zitelle bigotte che si spacciavano per sue sorelle: gli aveva fato proprio un bello scherzetto.
Jonathan ripose con cura il prezioso foglio dentro una cartella, si tolse gli occhiali e li poggiò sopra di essa. Si alzò e fece il gesto dell’ombrello verso il testamento con preghiera di consegna al parentado tutto.
Ma quell’improvvisa esplosione di energia, quel gesto troppo vigoroso, e quell’entusiasmo un po’ sopra le righe, non tennero in dovuta considerazione i cambiamenti climatici e, soprattutto, lo strato di ghiaccio disciolto che si trovava sotto i suoi piedi.
Jonathan scivolò con il piede d’appoggio e s’infilò come una slavina sotto al tavolino, urtando violentemente prima la schiena e poi la nuca contro la sedia di legno massiccio. Travolse le retrovie dei pinguini che stavano migrando verso altri lidi e, infine, batté la testa sul pavimento viscido e duro, maledettamente duro.
Il colpo rimbombò nella stanza gelida, ma appena si spense l’ultima eco del tonfo e l’ultima goccia d’acqua raggiunse il suolo non si udì più nulla.
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