Era buio e la pioggia picchiettava sui vetri appannati. Il dito di Arturo disegnava delle linee senza senso sulla superficie umida della finestra, e nel frattempo il suo cervello cercava di riordinare i pensieri, le cose da fare e quelle da evitare. Mentre era assorto e seguiva con lo sguardo le sue linee, si dimenticò dell’altra mano e della sigaretta accesa che attendeva inerte tra le dita. Sino a quando un leggero bruciore tra indice e medio attirò la sua attenzione, ma era troppo tardi ormai e il lungo cilindro di cenere si staccò dalla parte ancora integra della sigaretta e cadde. Arturo seguì il volo con lo sguardo sino a quando il residuo della combustione non raggiunse il pavimento, in mezzo ai suoi piedi.
Si guardò le dita della mano e notò che stavano assumendo una leggera colorazione giallastra.
- Cazzo! Devo smettere di fumare!
Ma quel pensiero svanì nella successiva boccata di fumo. Forse solo per quella sera o forse per sempre.
Già altri pensieri avevano soppiantato quell’idea e una piccola porzione di vetro pulito dal vapore acqueo aggiunse ulteriori distrazioni, consentendo la vista sulla strada, la notte e la pioggia.
Sul marciapiede svettava qualche ombrello sopra un gruppetto di teste chine e una nube di discorsi e parole impercettibili.
Fortunatamente i doppi vetri isolavano completamente la casa e i rumori restavano fuori. Sotto la pioggia. Al freddo.
Ogni tanto passava qualche auto che, incurante dei pedoni e delle pozze d’acqua che si erano formate sulla strada, non rallentava affatto e sollevava per aria schizzi e spruzzi contro i quali nulla potevano gli ombrelli e le urla provenienti dal di sotto.
Poi il vapore proveniente dalle narici di Arturo cancellò tutto, tranne qualche ombra dai contorni sfumati e il riverbero delle luci sulla strada.
Mentre cercava di seguire con lo sguardo l’ultima auto che stava svanendo nell’ultimo pezzetto di vetro non ancora appannato, un suono penetrante lo distolse dai suoi pensieri.
Era la sveglia che lo stava avvisando che i vetrini erano pronti per la lettura al microscopio.
Si diresse verso il piccolo laboratorio, senza fretta, mentre la sveglia insisteva nel richiamare la sua attenzione.
Arturo la raggiunse e la fece tacere. Poi estrasse i vetrini dal bagno di colore e li mise ad asciugare sopra un panno candido.
L’odore acre del reagente gli invase le narici e, anche se, dopo tanti anni, doveva essere abituato a quell’aroma non proprio gradevole, continuava a esserne infastidito.
La stanza, o meglio, lo sgabuzzino adibito a laboratorio era piccolo e privo di aperture verso l’esterno che consentissero un adeguato ricambio d’aria. Non c’era neanche una piccola finestrella né una ventola.
Lo spazio era occupato da un grande armadio, un frigorifero, un lavandino e un tavolino sul quale dominava il microscopio, circondato da boccette, provette e pipette di varie forme e dimensioni.
Del resto il piccolo laboratorio gli serviva solo quand’era costretto a portarsi il lavoro a casa, in casi molto particolari. Nella clinica universitaria aveva a disposizione ben altre apparecchiature e ben altri locali. E anche un sistema di ventilazione e filtraggio dell’aria.
Ma il minuscolo distaccamento domestico, autentico avamposto della scienza tra le mura amiche, donava una tranquillità impagabile alla sua materia grigia. Qui poteva riflettere con calma, prendersi tutto il tempo necessario e anche ignorare le linee guida e i protocolli.
Nessuno lo poteva vedere. Nessuno poteva suggerire o consigliare.
Erano soli, lui e le cellule che sguazzavano sui vetrini e dentro le provette. Ma questa volta le cellule da analizzare erano più complesse e antipatiche del solito.
La bestia, il virus, stava colonizzando un buon numero di organismi viventi e sino a quel momento ogni tentativo di arginamento dell’infezione era fallito miseramente. Gli antivirali disponibili sul mercato non avevano sortito alcun effetto sulla graziosa bestiola; anche quelli che di solito si tengono ben chiusi in cassaforte e che vengono utilizzati solo nelle grandi occasioni.
L’infezione aveva rotto gli argini ed era riuscita a spiccare il grande salto, da una specie all’altra, in pochissimo tempo. Il virus si adattava bene e velocemente ai nuovi habitat, senza incontrare alcuna resistenza e la sua carica virale era impressionante.
Dopo volatili, suini e ovini, era toccato all’uomo l’onore e l’onere di accogliere e ospitare il nuovo microrganismo mutante. Ma lui, la bestia, non si accontentava di percorrere la strada in un solo senso di marcia, era in grado di tornare indietro, dall’uomo agli animali, per poi ripresentarsi nei polmoni degli esseri umani con una nuova veste, ancora più forte e invincibile.
Arturo era solo uno dei tanti soldati che in ogni luogo della terra, in ogni laboratorio, in ogni ospedale, stavano cercando di scoprire le abitudini e gli eventuali punti deboli dell’animaletto.
In clinica aveva a disposizione un centinaio di campioni ematici di pazienti in diverse fasi della malattia, oltre che qualche provetta colma di sangue infetto prelevato in diversi allevamenti di suini.
Nel suo piccolo laboratorio casalingo aveva portato solo tre campioni di sangue umano, più che sufficienti per passare la notte in bianco.
La guerra era appena cominciata, ma il tempo correva veloce ed era assolutamente necessario trovare una soluzione prima che si diffondesse il panico. Come sempre, in questi casi, i giornalisti e i giornalai non aiutavano, anzi, pareva che stessero combattendo una battaglia diversa; in molti notiziari i numeri dell’epidemia crescevano in modo spropositato rispetto alla realtà, per non parlare del numero dei morti e aspiranti tali e, con questi, cresceva proporzionalmente anche il numero dei lettori.
Era una gara, una sorta di corsa a premi per chi la sparava più grossa e riusciva ad attirare di più l’attenzione dei lettori o telespettatori. O almeno così la pensavano la maggior parte di quelli in camice bianco. A qualcuno che lavorava per le case farmaceutiche, invece, faceva molto comodo il lavoro dei giornalai. In molti si sfregavano le mani. In tantissimi, invece, si sfregavano gli amuleti, i feticci o le immagini sacre, secondo le proprie credenze.
L’infezione si propagava per via aerea. Perciò non era semplice fermarla, anche perché il virus aveva una buona resistenza all’esterno; riusciva a campare anche alcuni giorni al di fuori dell’organismo ospite, pur non essendo in grado di moltiplicarsi senza il cibo offerto dalle cellule umane o animali. Vegetava nel suo stato inerte di virione, per poi risvegliarsi d’improvviso dal suo stato letargico una volta raggiunto il nuovo territorio di caccia.
Con l’ipoclorito di sodio si riusciva a ridurre la carica virale nelle zone contaminate, ma non era affatto semplice eliminare l’agente patogeno dalle aree affollate colpite dall’epidemia, nonostante l’uso massiccio di mascherine chirurgiche, divenute quasi introvabili nel giro di poco tempo.
Nei laboratori delle case farmaceutiche si lavorava a un improbabile vaccino da dare in pasto ai giornali e ai governi. In altre parti si progettavano mascherine con un sistema di filtraggio consono alle dimensioni ridottissime del nuovo arrivato. E i profitti crescevano di pari passo con il propagarsi dell’epidemia e del panico conseguente.
In varie manifestazioni popolari si gridava al complotto, al terrorismo e anche alla complicità delle industrie farmaceutiche. Ma, come la solito, tutto finiva li, con lo scioglimento della manifestazione, in qualche strada secondaria, sotto i colpi dei manganelli della polizia.
Arturo, invece, doveva continuare; doveva capire come agiva la bestia. Anche se li, nello stanzino senza finestre, non disponeva del microscopio elettronico della clinica e non poteva guardare in faccia il nemico.
Con il suo vecchio microscopio, compagno di mille battaglie, poteva solo osservare le cellule umane aggredite dall’invasore sconosciuto e come queste rispondevano all’attacco.
I sintomi dell’infezione erano abbastanza semplici da identificare, anche se, inizialmente, la malattia esordiva come una comune sindrome influenzale, con febbre elevata, dolori diffusi e disturbi delle vie aeree. Solo in un secondo tempo, a distanza di qualche giorno dall’esordio, il male si manifestava con tutta la violenza della quale era capace. Dapprima solo macchie scure sulla pelle, piccole ecchimosi o ematomi, poi il sangue cominciava ad abbandonare la sua sede naturale e a fuoriuscire da tutti gli sbocchi disponibili. E la morte sopraggiungeva dopo pochi giorni, tra atroci sofferenze ed emorragie imponenti. Il sangue non riusciva più a coagulare, neanche con l’utilizzo di farmaci. In un secondo tempo subentrava la necrosi dei tessuti che cominciava dalle estremità per poi espandersi lungo tutto il corpo; la cute, a questo punto, assumeva una colorazione bruno-nerastra, ma quando sopraggiungeva questa fase il paziente era già deceduto a causa delle emorragie. Per questi motivi l’infezione era stata battezzata “la morte nera” anche se non aveva molto a che spartire con la terribile epidemia di peste (la peste nera detta anche morte nera) che aveva falcidiato quasi metà della popolazione europea verso la metà del 1300.
I rimedi messi a disposizione per arginare l’infezione, o solo per bloccare o attenuare la sintomatologia parevano assolutamente inadeguati. E questo era un altro punto in comune con la morte nera del medioevo.
Qualcuno sosteneva che le industrie farmaceutiche non stavano mettendo a disposizione tutto l’arsenale bellico del quale disponevano; non erano in pochi a pensare che ai padroni dei principi attivi non dispiacesse affatto che l’epidemia si facesse un po’ di strada.
Ma ad Arturo quei discorsi non interessavano più di tanto; lui voleva solo colpire e affondare il nemico. Non conosceva la parola sconfitta e non voleva averci niente a che fare. Anche se qualcuno remava contro.
Era giunto il momento di riprendere il lavoro. S’infilò i guanti, la mascherina e il camice e prese i tre campioni infetti.
Il campione ematico A1 del 21 gennaio 2013, paziente RT004562I, fase 1 della malattia.
Il sangue di questa provetta era stato prelevato quando il soggetto infetto presentava solo i sintomi iniziali: tosse, febbre e rare petecchie.
Qui i globuli rossi apparivano ingranditi, con contorni irregolari e una colorazione più scura rispetto alla norma; le piastrine erano rare e non riuscivano ad aggregarsi.
Il parassita aveva appena cominciato la sua opera distruttiva; come una famelica orda vandalica si stava diffondendo velocemente lungo il tragitto che dagli alveoli polmonari la conduceva alle autostrade delle arterie.
Una volta incontrate le cellule bersaglio i virus si risvegliavano dalla loro condizione di apparente assenza di vita, senza metabolismo né alcuna attività al proprio interno. A quel punto i piccoli parassiti si legavano con le proteine della membrana delle cellule umane e inserivano il proprio genoma, un piccolo filamento di DNA a doppia elica, in quello dell’ospite per fare eseguire il lavoro di replicazione a quest’ultimo. E qui cominciava la guerra.
Il campione ematico A2 del 20 gennaio 2013, paziente VS003742I, fase 2 della malattia.
La malattia, in questo caso, era in una fase avanzata caratterizzata da ematomi, emorragie importanti, calo vertiginoso dei valori dell’emocromo, setticemia e decadimento delle condizioni generali.
In queste gocce di sangue i globuli rossi apparivano quasi completamente neri e con i contorni frastagliati. Le dimensioni erano divenute imponenti e la capacità di trasporto dell’emoglobina si era ridotta notevolmente.
Il virus stava colonizzando l’organismo ospite, senza incontrare alcun ostacolo.
Il campione ematico A3 del 19 gennaio 2013, paziente GB002957I, fase 3 della malattia.
In questo caso la Morte Nera era quasi giunta alla fine del suo pasto; il paziente perdeva sangue copiosamente, sopraggiungevano gravi problemi respiratori e cardiaci, non era più in grado di respirare autonomamente né di alimentarsi e le dita delle mani e dei piedi cominciavano ad annerirsi.
Qui il sangue era quasi privo di ossigeno, le cellule erano sfaldate e non riuscivano a svolgere il proprio compito. I globuli bianchi avevano smesso di lottare e la morte bussava alla porta.
Il virus aveva vinto la guerra.
Arturo ripose i campioni nell’apposito contenitore ermetico e li richiuse dentro l’armadio. Forse non era stata una buona idea portare la bestia a casa. Non poteva essere sicuro di riuscire a evitare l’infezione, non aveva i presidi adatti per proteggere sé stesso e la casa. Ma, ormai, non poteva più tornare indietro: il nemico era in casa e doveva tenerlo sotto controllo, per quanto possibile.
Gettò i guanti nel cestino con un gesto di stizza. Poi richiuse la porta dello sgabuzzino-laboratorio. Aprì il pacchetto delle sigarette, ne estrasse una e se l’avvicinò alle labbra, ma solo in quel momento si accorse di avere ancora la mascherina. Imprecò, la strappò e la lanciò per terra.
Finalmente riuscì ad accendersi la sigaretta.
-Vaffanculo! Devo smettere di fumare!
Ma non lo fece e si sedette sul divano, con la sigaretta tra le dita e i suoi pensieri che ronzavano dentro la testa. Il virus bussava alla porta e lui non sapeva bene come impedirgli di entrare, ammesso che non l’avesse già fatto. Forse era già tardi e il DNA della bestia stava già soppiantando quello umano. Forse stava cominciando una nuova era o, molto più probabilmente, era giunto il momento di far calare il sipario sul teatro dell’umanità.
Arturo accese il televisore, ormai la notte era andata e, con essa, anche il sonno.
Il virus aveva conquistato anche la maggior parte dei canali televisivi; non si parlava che di lui e delle sue imprese. I morti a causa sua erano già a sei cifre, secondo alcune fonti addirittura a sette. Il mondo era infestato.
Arturo spense il televisore.
Accavallò le gambe, le braccia e quant’altro era possibile accavallare nel suo corpo. La coda della notte era fredda e l’impianto di riscaldamento lo era ancora di più. La sveglia, che, evidentemente, non si era accorta che il suo coinquilino il letto non l’aveva neanche visto, suonò con prepotenza. Erano le 5 ed era giunto il momento di prepararsi per la battaglia.
Arturo si scavallò e si avvicinò alla finestra. Giusto per vedere che aria tirava fuori. Era ancora buio, ma il virus non dormiva.
Il giorno appena nato era freddo e ventoso e, di certo, non invogliava a uscire di casa.
Arturo rimase immobile qualche minuto davanti alla finestra a osservare le nubi nere sospinte dal vento e a cercare di convincersi che doveva uscire subito, nonostante il buio e il freddo. Dopo una notte insonne carica di tensione e preoccupazioni le energie andavano scemando e un leggero torpore stava rallentando i suoi pensieri, solitamente veloci e decisi.
Riuscì a staccarsi dal vetro e dalle immagini che filtravano attraverso di esso e preparò il caffè. Lo attese senza spostarsi dal fornello. Non aveva tempo per lavarsi e cambiarsi; ogni minuto era prezioso e, sicuramente, era preferibile uno scienziato con la barba lunga al lavoro rispetto a uno lindo e profumato ma ancora a casa. Così pensava Arturo, ma non è detto che nella sua equipe, nel laboratorio, tutti condividessero il suo pensiero.
La caffettiera borbottò sommessamente in un primo momento, poi, d’improvviso, diede sfogo a tutta la sua esuberanza e inondò la cucina di caffè bollente con un urlo liberatorio.
Arturo spense il gas, maledisse la caffettiera e chi l’aveva venduta, e si riempì la tazzina con quello che era rimasto. Cercò di raffreddarlo soffiandoci sopra e, nello stesso momento, s’infilò la giacca e il cappotto. Prese le chiavi della macchina dal tavolino di fronte al divano e uscì. Richiuse la porta alle sue spalle, senza preoccuparsi della serratura del portone blindato. Raggiunse la sua auto e, in quel momento, si rese conto di avere ancora la tazzina vuota in una mano. La gettò nell’erba del giardino, mise in moto e partì.
Le strade erano quasi completamente deserte se non fosse per qualche figura scura con il bavero sollevato e la testa china che camminava con passo spedito sul bordo del marciapiede, e qualche auto che procedeva lentamente lungo la carreggiata.
Le folate di aria gelida sollevavano foglie e cartacce e creavano vortici molesti sulle strade e sui marciapiedi. Parevano accanirsi sui rari passanti e sulle poche automobili che viaggiavano, quando ancora l’alba stava riposando e poche persone avevano già cominciato la loro giornata lavorativa o la stavano portando a termine.
Finalmente, dopo una decina di minuti di strada, Arturo raggiunse il laboratorio. Strisciò il badge, si disinfettò le mani, indossò camice, calzari, mascherina, cuffia e guanti ed entrò nella tana del virus.
Qui trovò i suoi colleghi stravolti e assonnati che stavano terminando il turno notturno. Li salutò con un gesto del capo e accese il suo computer.
- Ci sono novità? - chiese, senza distogliere lo sguardo dal monitor.
- Si - rispose uno di loro da dietro la cappa a flusso laminare.
- Buone nuove, spero - aggiunse Arturo.
- Tutt’altro - disse l’altro. - Anna e Giulio hanno contratto l’infezione e qui siamo e saremo sempre di meno. Non riusciamo a stare dietro a questa belva. Non riusciamo ad arrestare la replicazione virale in nessuno stadio. Abbiamo testato tutte le molecole in nostro possesso e niente, nessun risultato. Non c’è modo di fermarlo.
- Neanche con gli inibitori delle proteasi? - chiese Arturo.
- No - rispose l’altro. - I virioni giungono sempre a maturazione...E poi la stimolazione dei processi immunitari dei soggetti colpiti dall’infezione non serve a niente.
- Spero che Giulio e Anna non stiano troppo male - disse Arturo.
- Per ora sono ancora nella fase iniziale dell’infezione - disse l’altro. - Ma temo che non abbiano molte possibilità di cavarsela. Sono stati imprudenti. Non si può affrontare una simile bestia in quel modo.
Arturo la “bestia” se l’aveva portata a casa e in quel momento provò un certo disagio a udire le parole del collega. Non ne era pentito ma, senza dubbio, il suo comportamento poco ortodosso, oltre che estremamente rischioso, gli rodeva l’anima. Di certo, però, anche se ben nutriti, i “suoi” virus costituivano solo una goccia nel mare e non potevano far peggiorare ulteriormente la situazione. Ma lui era pur sempre uno scienziato e doveva rispettare le regole, sempre e comunque. Invece il virus se l’aveva portato fuori a cena come se fosse un’avvenente fanciulla di sani principi morali e non un pericoloso assassino quale invece era.
- Quindi - disse, una volta sfumati i pensieri e l’imbarazzo. - Non siamo in grado d’inibire la replicazione dell’acido nucleico del virus? Non c’è modo?
- No - intervenne Emma, la più giovane dello staff. - Lui è una creatura superiore. Nessuno lo può fermare, o almeno, non ora e non qui. Siamo troppo indietro...Qualcuno sostiene che sia un virus alieno, lo sai?
Arturo la fissò. Emma gli era sempre piaciuta, anche e soprattutto quando sosteneva le teorie più stravaganti e usciva dai rigidi canoni del protocollo. E poi, lui, non resisteva a quello sguardo e a quella voce, qualunque cosa ella dicesse.
- Vorrà dire che telefonerò al capitano Kirk - disse lui.
- Si - disse l’altro, con le mani dentro la cappa. - L’Enterprise la può parcheggiare a casa mia. Ho un garage molto spazioso.
Arturo sorrise e si alzò, mentre la proiezione virtuale in 3d del virus continuava a girare nello schermo del suo computer. Si diresse verso il microscopio e solo in quel momento si rese conto di avere le gambe deboli e leggermente tremolanti. Giunse alla postazione poco prima che le ginocchia cedettero, ma lui non ci fece caso più di tanto e attribuì la cosa agli effetti collaterali della notte insonne.
Sistemò la seduta all’altezza giusta e regolò il fascio degli elettroni del microscopio secondo le sue esigenze. Avvertì un lieve capogiro e faticò non poco per mettere a fuoco le sue cellule e relativi parassiti intracellulari.
- Merda! - esclamò.
- Che c’è? - chiese Emma, appoggiandosi alle sue spalle.
- Niente - Rispose Arturo. - Non ho dormito stanotte e sono un po’ stanco.
- Perché noi abbiamo dormito, secondo te? - disse lei.
- Lo so, lo so - mormorò Arturo. - Ma voi ora potete andare a riposare. Io, invece, devo restare qui a giocare con questo stronzo.
- Ah, non sono sicura che possiamo andare a dormire - replicò Emma. - Dubito che arrivi qualcun altro a darci il cambio. Guarda un po’ che ora è...
- Ma no - disse lui. - Ci sono Gianni e Francesca. Sicuramente si stanno cambiando.
Il silenzio riprese il suo posto nella sala bianca. Ognuno cercava di dare il meglio di sé stesso, nonostante la stanchezza e la sonnolenza.
Il cambio non arrivò.
Arturo aveva la vista annebbiata e decise di staccarsi per un po’ dal microscopio. Ritornò alla sua poltrona, non senza fatica, e cercò di analizzare i dati al computer, ma lo schermo sfuggiva, svaniva in una sorta di nube indefinita, per poi riapparire, ma solo per pochi istanti. Le palpebre erano pesanti e al cervello, ogni tanto, per qualche frazione di secondo, veniva a mancare la corrente. Le lettere e i numeri si stavano sovrapponendo pericolosamente, sino a divenire completamente incomprensibili.
- Maledetto sonno - sussurrò.
Subito dopo calarono le tenebre e il silenzio divenne assoluto.
L’ultima immagine colta dalle sue retine fu il luccichio del pavimento bianco e una piccola macchia rossa ai suoi piedi. Poi il nulla.
Si svegliò con un suono metallico ripetitivo e irritante, e un debole bisbiglio in sottofondo.
- Chissà quanto ho dormito - pensò.
Aprì gli occhi e notò che la sua posizione era cambiata. Era supino, e intorno a lui c’erano delle persone con i volti coperti da maschere dotate di filtro dell’aria. Non riconobbe nessuno di quegli sguardi. Non riusciva a capire le loro parole e non era più sicuro di trovarsi nel laboratorio dell’università.
Cercò di dire qualcosa, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Si rese conto di avere qualcosa di plastica che sporgeva sopra il suo naso. Si sforzò di mettere a fuoco e riconobbe una maschera per l’erogazione dell’ossigeno sul suo volto. Subito dopo sentì il flusso dell’aria che invadeva le narici e le vie aeree e percepì la presenza di un elastico che stringeva la sua testa sopra le orecchie. Non riusciva a muovere gli arti, solo il collo e, in parte, i muscoli facciali rispondevano agli ordini del cervello.
Girò la testa leggermente sul lato destro e vide la fonte di quel suono costante e leggermente metallico. Era l’apparecchio che monitorava le sue funzioni vitali e, da quello che riuscì a vedere, non c’era da stare tranquilli.
Provò a ruotare il capo dall’altra parte. Ci riuscì solo parzialmente, ma tanto bastò per vedere dei tubi che fuoriuscivano dal suo corpo sotto la clavicola sinistra. Seguì con lo sguardo i tubi trasparenti e fermò i suoi occhi sulle pompe d’infusione che regolavano il flusso dei farmaci. Voleva capire cosa gli stessero somministrando, ma non ci riuscì. La stanza girava e le immagini erano confuse. Richiuse gli occhi. Sentiva che la coscienza lo stava per abbandonare. Sotto le palpebre si stava formando del liquido rosso, forse sangue, forse lacrime mescolate ai suoi globuli rossi. Avvertì un incremento degli atti respiratori e dei battiti cardiaci, ma non riusciva a provare paura né dolore.
Un attimo dopo, gli parve di avvertire un certo stato d’agitazione intorno a sé, tra quelle persone che non conosceva. Ma non riuscì ad aprire gli occhi. Le macchie rosse stavano lentamente diventando scure, sempre più scure.
Poi tutto divenne nero, e i suoni sfumarono velocemente nel silenzio e si portarono via la percezione del suo corpo e, subito dopo, la sua vita.
La Morte Nera aveva vinto.
Edizioni Nenne 2013
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