Lasciate ogni speranza o voi che entrate

Bochesmalas

giovedì 22 marzo 2018

Anime Arrosto



La bestia era nascosta dietro un angolo. Agiva sempre allo stesso modo, nascosta tra le ombre, nel silenzio di qualche vicolo o in qualche strada secondaria poco trafficata. La preda, in ogni caso, non poteva avere alcuna possibilità di scampo. Mai. La scelta del soggetto poteva apparire apparentemente casuale, sia alle vittime stesse sia a un ipotetico osservatore estraneo ai fatti. Invece c’erano tutta una serie di criteri per la selezione delle vite da prendere. Le vittime, ovviamente, non ne erano a conoscenza ma c’erano delle regole, e queste venivano seguite pedissequamente. Giù nell’ufficio Raccolta Anime erano precisi, dannatamente precisi. Niente era lasciato al caso. Alla base di ogni scelta c’era uno studio approfondito di ogni vita, un’accurata valutazione dei soggetti da prendere. Anche se alle vittime, prima, durante e dopo la cattura, questi studi non interessavano particolarmente e non parevano avere un significato di rilievo, dato che non ne erano a conoscenza. L’unico motivo di interesse inerente il suddetto ufficio era il fatto stesso di essere oggetto di una sua attenzione. Quando si finiva nell’elenco non c’era alcuna via di scampo. Una volta selezionati si poteva, e doveva, salutare definitivamente la propria vita e i propri cari e sistemare le ultime faccende personali, senza attendere troppo. Non c’era possibilità di fare ricorso in appello. Le pratiche avviate dovevano essere evase in un tempo prestabilito inderogabile, e le bestie si occupavano proprio di questo.
Quando la bestia saltò fuori dal suo nascondiglio di pietre e silenzio il commercialista si lasciò cadere in ginocchio. Percepì il fetore immondo del cacciatore ancora prima di vederlo. Sapeva di aver finito il proprio tempo. Chinò il capo con rassegnazione e attese che gli eventi facessero il loro corso. La bestia posò le sue dita adunche sulla testa dell’uomo e, biascicando alcune frasi incomprensibili, ne estrasse l’anima. Aprì la sacca che aveva sulle spalle e la infilò con cura all’interno. Richiuse il fagotto e s’incamminò verso la destinazione successiva.
Lasciò il corpo esanime accasciato sull’asfalto. La borsa professionale aperta accanto e un mazzo di fogli sparsi sul marciapiede.
La bestia si appostò per la seconda riscossione della giornata. Consultò la sua lista e dopo pochi istanti si avventò contro una giovane donna…

Giovanni si svegliò di soprassalto tra i mucchi confusi di coperte e lenzuola. Era sudato. Il cuore correva impetuoso. Si guardò intorno. Non c’erano bestie né cadaveri. L’incubo era finito.
Si stropicciò gli occhi con l’intento di scacciare il sonno persistente e di liberarli dai residui di cispa. Si sentiva più stanco di quando aveva spento la abat-jour diverse ore prima. I muscoli erano intorpiditi e stanchi a causa dell’agitazione notturna. La cefalea tormentava i recettori delle sue meningi. Si trascinò stancamente sotto la doccia per lavare via gli incubi e i residui della notte. Per un attimo, mentre l’acqua calda tentava di portarsi via la stanchezza, ripensò all’archivio delle anime e alle bestie che dovevano riscuoterle dai cittadini ignari. Ma il ricordo sfumato e confuso del sogno svanì presto, soppiantato dal ben più concreto richiamo dell’orologio. Gli restava poco tempo per asciugarsi, vestirsi e correre verso il luogo di lavoro. 
Uscì dal box, spargendo acqua in ogni dove. Mise una caffettiera, presumibilmente già pronta, sul gas. Buttò giù un’aspirina per far tacere i colpi di martello che continuavano a tormentare le sue tempie e infine riuscì ad uscire in tempo, con in mano il caffè bollente in un bicchiere di plastica. Lo buttò giù in un colpo solo e salì in macchina con l’intenzione di studiare una strada alternativa per evitare il traffico mattutino. Invece, senza rendersene conto, l’auto s’infilò nella solita bolgia di lamiere, fumi di scarico e asfalto, nella solita strada che tutti prendevano a quell’ora. Come se non esistesse nessun altra via nel mondo, in determinati orari si concentrava la quasi totalità della popolazione cittadina in quei pochi chilometri di asfalto sconnesso.
Quando Giovanni percepì finalmente il mondo circostante si ritrovò imbottigliato nel solito inferno delle 8 del mattino. Era troppo tardi per tornare indietro, per imboccare una strada diversa. Davanti aveva una fila chilometrica di auto che procedevano a passo d’uomo. Alle sue spalle era anche peggio: non si riusciva a vedere la fine della coda che spariva alla vista solo diversi incroci più dietro, nella grande curva che lui aveva attraversato molti minuti prima.
Lanciò tutta una serie di invettive e maledizioni all’indirizzo dei suoi concittadini, dell’assessore al traffico, della polizia municipale e, infine, ne riservò una cospicua parte anche a se stesso, al suo sonno appiccicoso e alla sua proverbiale distrazione che lo aveva fatto piombare in quell’inferno. Nonostante le intenzioni quando accese il motore fossero ben diverse.
Batté i pugni sul volante e si attaccò al clacson. Ma si trattava solo di un modo per sfogare la tensione che non poteva portare in alcun modo alla soluzione del problema. Doveva attendere e basta. Nonostante avesse già dato fondo, con largo anticipo, agli ultimi residui di pazienza.
Ogni tanto la monotonia dell’attesa infinita era spezzata dal passaggio di qualche branco di studenti nelle intercapedini del serpente di lamiera. Madri che sgridavano i figli presi per mano e trascinati in corse nevrotiche. Figli che cercavano di divincolarsi dalla stretta delle madri. Ragazzini brufolosi che cercavano di importunare ragazzine con le gonne corte. Vigili urbani che davano fiato ai fischietti. Un vero e proprio girone infernale.

Attendere prego…

Giovanni accese la radio, ma la spense subito dopo perché le notizie erano sempre le stesse ed erano anche più monotone e fastidiose del traffico.
Tenere la posizione. Impedire ai furbetti dell’altra corsia di infilarsi. Freccia o non freccia non bisognava cedere il passo, pena la rottura definitiva dell’equilibrio della fila, già sufficientemente precario di suo.

…La mano della bestia s’infilò dal finestrino imprudentemente lasciato aperto. Afferrò l’uomo per il collo, senza stringere troppo. Non aveva bisogno di imprimere molta forza per ottenere quello che voleva. Il malcapitato non poteva opporre alcun tipo di resistenza. Non sarebbe stato in grado neanche di ritardare l’operato degli artigli della bestia, reagendo in qualche modo per guadagnare qualche altro minuto di vita. La bestia non provava dolore, non poteva essere fermata o ferita, né tantomeno uccisa con nessun tipo di arma. Era immune a qualsiasi sistema di offesa. Non poteva morire. Era già morta.
L’anima dell’uomo era pronta per abbandonare il corpo…

Giovanni si destò con il frastuono dei clacson della coda del serpente. Davanti a sé c’erano qualche decina di metri di asfalto vuoto. Il mostro si era messo in moto e lui aveva perso l’attimo fuggente. La coda non permette simili distrazioni. La coda non ha pietà verso chi sbaglia. 
Il cuore di Giovanni era in tumulto per la seconda volta nel giro di poche ore. Il sonno arretrato poteva essere fatale nella battaglia per la sopravvivenza in città. Accelerò con forza e raggiunse la testa del serpente, giusto un attimo prima che dalle costole del rettile venissero fuori gli aculei degli automobilisti più nervosi.
Frenò giusto in tempo prima di vedere da vicino gli interni di una Panda celeste che sonnecchiava davanti. Respirò profondamente per riacquisire il controllo del sistema. Una vecchia bussò nel finestrino e gli urlò dentro l’abitacolo asserendo, in mezzo a un fiume di turpiloqui, che avesse rischiato di venire messa sotto dall’auto di Giovanni. Lui non riuscì a controbattere. Era sicuro di che non ci fosse mai stato nessuno tra il suo cofano e la Panda che gli stava davanti. Non si era accorto di nulla.
La vecchia sputacchiò e provò anche a colpirlo con la borsetta. Giovanni non oppose resistenza. Forse perché era sicuro che la donna non sarebbe riuscito a colpirlo o forse perché non poteva giurare che il fatto non fosse vero. E un po’ si sentiva in colpa.
Il sonno improvviso, come se fosse stato in preda di un attacco di letargia. L’incubo ricorrente. In pieno giorno. Non era più sicuro di niente.
Lasciò sfogare la vecchia senza controbattere. Si limitò ad annuire, cercando di non far trapelare il nervosismo e l’indifferenza verso le sue lamentele. Dal suo punto di vista era decisamente più preoccupante il suo crollo mattutino, inaspettato e pericoloso, che non la quasi innocua borsetta della donna.
Finalmente la vecchia svanì in mezzo al traffico. Il muso dell’auto di Giovanni guadagnò qualche altro metro.
Accese nuovamente la radio per cercare di restare sveglio. Il tragitto verso il posto di lavoro era ancora lungo e irto di ostacoli, prevedibili e non.

“Watch the big old moon swallow the stars
Lay Lucretia in a burned-out car
Whisper to the ground where the rivers run cold
Strange scenes at the Bar-B-Q of Souls
The Bar-B-Q of Souls

Stone Age creatures beckon to thee
Revealing secret parts of ancient history
Shadow-covered mystic eyes…bright coals
Glowing at the Bar-B-Q of Souls
The Bar-B-Q of Souls

Silver surfers trying to hide their scars
Long-dead cowboys picking chrome guitars
They’re all soul-searching where the wildweeds grow
You’re gonna meet ‘em at the Bar-B-Q of Souls
The Bar-B-Q of Souls

Hum a lonesome tune in the dead of night
Stare at the door almost out of your mind
Hear pied-pipers recite the Dead Sea scrolls
Weird Tales told at the Bar-B-Q of Souls
The Bar-B-Q of Souls

There are alien dancers to keep you company
And outlaws and barrooms in a foreign galaxy
Why down in the pits demons wait in their holes
All for you at the Bar-B-Q of Souls
The Bar-B-Q of Sou…” (*)

Seguì il ritmo della musica con il piede per tenersi sveglio e per rimettere in circolo il sangue dormiente. Ogni tanto buttava l’occhio negli specchietti retrovisori per vedere se la bestia e la vecchia c’erano ancora. Stando ben attento a non far visita alla fanciulla bionda che pilotava la Panda davanti a lui. 
Si stropicciò gli occhi. Doveva stare sveglio a tutti i costi, per non spezzare la schiena del serpente e soprattutto per non far ritornare la bestia. Gli doleva il culo a causa della prolungata costrizione all’interno delle viscere dell’animale strisciante. Gli doleva la testa. Aveva bisogno di aria, di sonno o di un caffè caldo. L’ultima cosa che avrebbe voluto in quel momento era proprio lo starsene imbottigliato nel traffico delle 8 di mattina. Con la bestia in agguato, le palpebre pesanti e la meta ancora distante, troppo distante.

…La bestia fece rientro nell’ufficio Raccolta Anime. Si avvicinò alla porta blindata della camera sterile. Il lettore ottico la riconobbe immediatamente e fece scattare la serratura. La bestia non aveva bisogno di bardarsi né tantomeno di disinfettarsi le zampe. Era immune a ogni tipo di microrganismo. Nessuna infezione di nessun genere poteva aggredire la sua carne morta. Nessun batterio, nessun virus o fungo, poteva utilizzare il suo corpo come vettore. Era carne morta. Ed era morta da secoli.
All’interno della stanza l’attendevano due addetti in un ambiente asettico, silenzioso e candido, con le loro tute bianche e il volto nascosto da caschi dai vetri scuri. La luce era fortissima, quasi accecante. La stanza era illuminata da una serie di decine di fari a led che non lasciavano spazio alle ombre.
La bestia vuotò il contenuto della sacca sopra un tavolo d’acciaio lucente. Uscirono decine di anime urlanti, impalpabili, appena percepibili alla vista ma non ai potenti raggi luminosi sparati sul tavolo. Le anime saltavano e si contorcevano in preda al terrore, ma non potevano superare il perimetro del tavolo operatorio. Un’invisibile reticolo disegnato dai laser ne delimitava lo spazio e impediva lo sconfinamento dalla zona riservata. Vi era solo lo spazio per inserire i guantoni degli operatori.
La bestia lasciò la sala in silenzio. La porta le si richiuse alle spalle con un tonfo sordo.
Intanto il primo operatore afferrava la prima anima sotto i raggi rivelatori. Con una mano la teneva ben stretta e con l’altra, munita di una piccola siringa da 0,5 millilitri, estrasse del liquido. La forma evanescente si contorceva ma non riusciva a opporre alcuna resistenza. Il liquido fluorescente estratto venne iniettato all’interno di una provetta numerata. Il secondo operatore, con un tablet in mano, annotava la procedura e spuntava le relative caselle. All’anima vivisezionata venne applicata una copia del codice a barre identica a quella incollata sulla provetta. Il secondo operatore passò il lettore di codici e, una volta ottenuto il suono di conferma del riconoscimento, inserì l’anima in un contenitore di vetro. Subito dopo questa venne raggiunta in rapida successione dalle altre anime svuotate e numerate. Alla fine della procedura l’addetto richiuse con cura il contenitore, vi applicò un sigillo e premette un pulsante. Si aprì uno sportello nella parete in fondo alla stanza. L’operatore posò il contenitore sul piano sottostante. Un lettore scanner scansionò le etichette. Dopodiché una seconda lastra di metallo si aprì permettendo a chi si trovava all’esterno della stanza di accedere al materiale trattato. Un terzo operatore prese il contenitore, mentre un quarto, munito di un altro tablet e di un altro lettore di codici, ne verificava attentamente il contenuto. Il sistema di controlli era pressoché infallibile. Non erano ammessi errori né iniziative personali. Il protocollo era rigido ed ermetico.
Le anime vennero condotte in un’altra stanza, al centro della quale si trovava un macchinario che pareva un’autoclave per sterilizzazione. Un altro addetto in camice blu aprì lo sportello, attese che il contenitore venisse posato sul piatto di metallo all’interno e richiuse l’apparecchio. L’altro addetto regolò la temperatura a 1000 gradi centigradi e avviò la procedura finale: l’incenerimento…

Giovanni finalmente riuscì ad avere la strada libera di fronte a sé. Accelerò con decisione, con un gesto liberatorio che scacciò via in un colpo solo sia il sonno sia lo stress accumulato. Divorò l’asfalto senza più pensieri, una curva dopo l’altra, fuori dal centro della città e dal suo sovraffollamento caotico. 
Era quasi giunto alla meta e stava già pensando di iniziare a decelerare, quando un’animale gli attraversò la strada d’improvviso. Non fece in tempo a metterlo ben a fuoco. Gli parve un cane, un grosso cane dal manto scuro, ma non poteva esserne certo. Non ne ebbe il tempo. Riuscì a evitarlo con una brusca sterzata. L’auto sbandò mentre i freni fischiavano e le gomme stridevano sulla strada, cercando di riprendere un assetto sicuro. Stava per rientrare nella sua corsia quando sopraggiunse un tir proveniente dal senso opposto. Solo pochi metri, una frazione di secondo, un battito di ciglia, e la sua auto ce l’avrebbe fatta a rientrare in carreggiata.
Ma le ciglia non batterono più. Giovanni non ebbe scampo. La bestia riuscì a prendersi anche la sua anima.





* “Barbeque of Souls” di Hank Ray tratta dall’album "Barbeque of Souls" - 2008 - Hank Ray - Devil’s Ruin Records 



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