Lasciate ogni speranza o voi che entrate

Bochesmalas

mercoledì 6 maggio 2020

La Cura

La chiamata arrivò proprio mentre Olaf stava mandando giù l'ultimo boccone del suo pranzo. Lo spinse ancora più in fondo con una lunga sorsata di vino. Raccolse velocemente le sue cose: telefono, chiavi, portafoglio e la sua preziosa scatoletta. Ruttò sull’uscio di casa e tirò la porta dietro di sé, senza guardare. 
L’auto sfrecciò senza incontrare ostacoli sulla striscia di asfalto lucido per l’umidità. Era l’ora di pranzo e quindi non c’era troppa gente in giro, solo qualche pedone solitario e un paio di automobili distanti.
Si fermò a un semaforo. Approfittò dell’occasione per abbassare un finestrino e sputare un pezzetto di pesce che gli era rimasto tra i denti. Ripartì sgommando con tanti pensieri che gli frollavano dentro la testa.
Quando giunse al viale alberato che conduceva alla villa, sospirò e spense i suoi pensieri, dopodiché spense anche il motore. Il dottor Richardson, gran maestro di Alkeran, custode delle tradizioni e della medicina antica dei Rituximab, lo attendeva per dargli un nuovo incarico quindi Olaf poteva smettere di pensare, in attesa di istruzioni.
Per il gran maestro le erbe non avevano segreti, le sue miscele erano richieste in tutta la nazione. Aveva una cura per ogni male.
Molte persone si indebitavano pur di avere uno dei suoi preparati, erano disposte a spendere sino all'ultimo centesimo pur di assicurarsi le sue attenzioni. Eppure in tutta la nazione esisteva un servizio sanitario efficiente e soprattutto gratuito, ma ad Alkeran erano ancora legati alla medicina tradizionale.
Olaf non aveva bisogno di cure, non si trovava lì per questo. Lui faceva parte della terapia. Era giovane e forte. Veniva chiamato quando c’era bisogno di farmaci particolari. Lui si occupava di procurare un determinato principio attivo che non si trovava nei giardini di Alkeran e tantomeno nei boschi circostanti. Si trattava di un elemento fondamentale per la medicina tradizionale delle genti Rituximab.
Olaf si occupava di cazzi. Di cazzi orientali per la precisione.
Il pene cinese era il più richiesto per le preparazioni della medicina tradizionale, era il più pregiato. Tuttavia c’erano anche prodotti più economici. Per i clienti meno abbienti veniva utilizzato quello di varie etnie del sud est asiatico, in particolare quelli provenienti dal Vietnam ma anche, nella versione da discount, quelli estratti da maschi della Cambogia, del Laos, dell’Indonesia o della Thailandia.
Il pene doveva essere reciso di netto con un solo colpo in una notte di luna piena. Dopodiché veniva riposto all’interno di uno speciale involucro, termico e impermeabile, che ne conservava le proprietà organolettiche, proteggendolo dalla luce e dagli sbalzi di temperatura.
Olaf era un esperto in fatto di tagli e cura del trasporto del pregiato medicamento. Garantiva sempre prodotti di prima qualità in perfetto stato di conservazione. Richardson a sua volta era l’unico ad avere le conoscenze adeguate sulla materia, tramandate da tempo immemore da un suo antenato. il trattamento per ottenere la pozione medicamentosa consisteva nell’aprire l’involucro in un ambiente protetto, senza inquinare il prezioso contenuto. Perciò il gran maestro si serviva di guanti sterili e mascherina. Una volta estratto il pezzo ne valutava la temperatura e l’eventuale presenza di alterazioni. Dopodiché procedeva a svuotarlo dal sangue residuo utilizzando pinze chirurgiche e uno specillo per entrare in fondo e pulirne bene le cavità. Una volta scolato e asciugato con cura lo faceva essiccare al sole per almeno 72 ore, sotto una zanzariera per proteggerlo dagli insetti. Ogni notte veniva messo al riparo dall’umidità all’interno di una speciale stufa che ne accelerava il procedimento di asciugatura e, al contempo, evitava che lo stesso si deteriorasse. Dopo le 72 ore previste dal rito il pezzo veniva trattato con uno speciale unguento prima, e poi cosparso con una miscela di natron, spezie e alcune gocce speciali che lo preparavano all’ultima fase. Dopo ulteriori 24 ore di trattamento il pene veniva ripulito dai sali e dagli aromi ed era pronto per essere polverizzato. Per quest'ultima parte del procedimento veniva usato un antico mortaio di abete rosso con un pestello costituito da un femore di uomo di Neandertal. Le mani sapienti di Richardson erano in grado di ottenere una polvere finissima brunastra, inodore e insapore.
A quel punto il prodotto era pronto per essere somministrato ai pazienti. Un vecchio cucchiaino d’argento fungeva da dosatore, come tramandato dai sapienti consigli dei predecessori del maestro. Il contenuto del cucchiaino veniva disciolto in 125 ml di latte materno fermentato ad alta gradazione alcolica, che però non doveva superare i 70°.
Un solo bicchiere della miscela medicamentosa era in grado di debellare qualsiasi virus, batterio o fungo, era inoltre efficacissimo come antiparassitario e anche come anticoncezionale per le donne. Qualcuno asseriva che fosse un toccasana anche per l’insonnia e l’impotenza, ma il dottor Richardson non ha mai confermato queste tesi.

Olaf si occupava della caccia in tutte le sue fasi: selezione del soggetto, narcotizzazione dello stesso ed evirazione rapida e pulita nel più assoluto silenzio.
I soggetti venivano cacciati in loco, quando disponibili, altrimenti il cacciatore si doveva spostare per trovare una preda adatta. Procedeva in auto quando ne veniva segnalato uno all’interno dei confini dello stato. Se invece doveva varcare il confine della repubblica di Rituximab preferiva prendere i mezzi pubblici. In treno non c’erano grossi problemi per il trasporto dell’attrezzatura. In aereo invece doveva necessariamente caricare il suo materiale (narcotici, siringhe e coltello, nonché i peni procacciati nel viaggio di ritorno) nella stiva per evitare di perdere tempo ai controlli di sicurezza, dato che non i tutti i paesi era consentito viaggiare con dei cazzi nella borsa. In alcune occasioni, secondo i paesi dove doveva cacciare, si faceva spedire gli attrezzi all’indirizzo dell’hotel prescelto e, una volta terminato il lavoro, rispediva il tutto a Richardson, peni compresi. In questo modo poteva viaggiare sicuro e leggero.
Il problema più grosso era rappresentato dal fucile di precisione silenziato, tra i suoi attrezzi quello indubbiamente più difficile da trasportare nei mezzi pubblici. In alcune nazioni poteva contare su una rete di fornitori molto efficiente e discreta. In qualche circostanza, invece, era costretto a rivolgersi anche per il fucile ai servizi di spedizione internazionale oppure al mercato nero. Solo in certi paesi poteva trasportarlo nel bagaglio di stiva in tutta sicurezza.
Quindi alcune volte era costretto a fare a meno dell’arma, sia perché non era sempre in grado di portarselo appresso sia perché in determinate circostanze era impossibile usarlo. Infatti in alcune occasioni doveva interagire con le sue vittime in spazi stretti e a distanza ravvicinata. In quei casi utilizzava la siringa con il narcotico. Un colpo secco sul collo e il market era aperto.
In qualche occasione, se ne aveva il tempo, usava il suo speciale attrezzo per cauterizzare la ferita. In qualche altra circostanza aveva anche usato il ghiaccio, ma quest’ultima soluzione era difficile da mettere in pratica, soprattutto nei paesi caldi. Il più delle volte non aveva né la possibilità né il tempo per risolvere i problemi emorragici delle sue prede. Doveva occuparsi del raccolto in fin dei conti, non della salute dei donatori. Non era un suo problema.

Varcò con passo sicuro il cancello della villa. Si sentiva pronto. Attraversò il lungo viale delimitato da una lunga serie di vecchi lampioni in ferro battuto e antichi alberi maestosi. L’unico suono che lo accompagnava nel tragitto era il rumore delle sue scarpe sulla ghiaia del viale. Il suo battito era tranquillo. Il respiro lento e regolare.
Salì sulla scalinata in pietra, avvolta nell’edera e da qualche macchia di muschio. Una volta giunto all’ultimo gradino non fece in tempo a bussare che la pesante porta di legno massiccio si schiuse davanti a lui, cigolando sui vecchi cardini.
Lo accolse una giovane cameriera elegantemente vestita con una divisa bianca e nera. Lei accennò un leggero inchino accompagnandolo con un piacevole sorriso. Lui rispose con un cenno del capo e varcò la soglia.
Olaf era una celebrità in città.
La ragazza gli fece strada sculettando lungo un corridoio scuro, tra mobili antichi intarsiati da abili ebanisti, oggetti strani e indefinibili, statue di divinità e quadri bizzarri.
I passi erano attutiti dal un lungo tappeto variopinto che si fermava proprio in corrispondenza dell’ingresso alla grande sala. 
La ragazza aprì la porta e si congedò con un sorriso. Olaf la seguì per un attimo con lo sguardo poi, subito dopo, rivolse la sua attenzione all’interno della stanza.
Intorno al grande camino acceso sedevano il gran maestro Richardson, il sindaco Thomas, l’assistente farmacista, nonché figlia primogenita del padrone di casa, Ophelia Richardson con le sue lunghe gambe in bella mostra, e Don Eusebio il parroco della città.
Mancavano gli altri cacciatori il ché lasciava supporre che si trattasse di un lavoro particolare. Solo Olaf poteva garantire la massima segretezza e il meglio nel suo campo.
La luce rossastra riflessa dal fuoco donava un’atmosfera cupa e al contempo rassicurante alla sala decorata da preziosi stucchi, statue di marmo e legni pregiati. L’immensa libreria riusciva sempre a catturare lo sguardo come anche l’altrettanto appariscente collezione di alambicchi, vasi e anfore decorati da fregi antichi contenenti tutti i segreti del sapere degli speziali di tutti i tempi. Dagli albori della scienza della farmacopea e della medicina tradizionale di tutti i popoli sino ai più moderni preparati. Una collezione di grande valore storico che però non faceva parte dei ferri del mestiere del gran maestro. Era solo un’esposizione atta a stupire i suoi ospiti. Il laboratorio del dottor Richardson era privato e assolutamente inaccessibile per gli estranei ma anche per i suoi collaboratori. Al suo interno il maestro operava in assoluta solitudine. Lui e i suoi segreti. Nessun altro.
Neanche ad Olaf era concesso entrare nello studio. Le consegne avvenivano nella grande sala, dove era presente una teca apposita dove riporre il prezioso carico. Accanto vi era una grande registro dove il cacciatore doveva firmare una volta messa al sicuro la mercanzia.

Il dottore porse una busta ad Olaf senza profferire parola. La figlia invece gli porse un malizioso sorriso accompagnato da un audace movimento delle gambe che comportò un inaspettato lancio di una scarpa.
Olaf si chinò. La raccolse, prendendola con cura per il sottile tacco nero. Si inginocchiò davanti alla ragazza e riposizionò la calzatura nel piede, non senza destare un certo imbarazzo nella sala. Lei sorrise e ringraziò. Il prete volse lo sguardo al cielo. Il sindaco buttò giù un sorso di vino. 
Il gran maestro, invece, gli indicò la porta. Senza manifestare alcuna emozione.
Il cacciatore salutò con un cenno il padrone di casa e i suoi ospiti. Si mise nella tasca interna della giacca la busta e lasciò la stanza.
Davanti a sé ricomparve dal nulla la cameriera. Lo accompagnò all’uscita con passo svelto. Olaf la seguì con la stessa andatura e una volta giunto in prossimità della porta le diede un buffetto su una natica e uscì. La cameriera rimase un attimo sulla soglia in attesa che il cacciatore si voltasse. Lui lo fece quasi subito e lei potè rientrare con un gran bel sorriso stampato sul grazioso viso. 
Una volta in macchina Olaf aprì la busta. All’interno c’era il solito assegno e le istruzioni. Lui lesse voracemente e rimise il tutto in tasca.

Aveva poco tempo, ma la vittima non era molto distante; poteva raggiungerla in auto. Gli orientali presenti nella zona erano in via di estinzione. Quando ne trovava uno però era un gran piacere. Forse si stava impigrendo oppure, anche se non lo voleva ammettere, non vedeva l’ora di ritornare a far visita al maestro per rivedere la cameriera e la figlia. Da tempo sognava di scoparsele tutte e due. Magari nello stesso tempo. Sul divano della grande sala o sul tappeto del corridoio.
Un attimo dopo scacciò via quei pensieri, resettò il sistema e si mise in moto. Aveva tutto con sé, le fiale, il fucile, i guanti, il coltello. Caricò l’indirizzo nel navigatore e seguì la strada con calma e serenità.
Solitamente preferiva stanare le sue prede in campo aperto, in terra straniera, in un villaggio orientale o in un wet market, ma stavolta no. Un lavoro semplice e pulito era la cosa migliore. Probabilmente quello che stava per cacciare era l’ultimo cinese della zona. Non poteva lasciarselo scappare.
Accese lo stereo e la musica lo accompagnò senza pensieri sino all’ingresso della cittadina. Melfalan, la sua nuova riserva di caccia.
Il navigatore lo portò sotto casa della vittima. Ora non gli restava altro da fare che attendere con pazienza. Si mise i guanti, estrasse il fucile dalla custodia, avvitò il silenziatore e regolò il mirino di precisione per la distanza. Poteva anche avere bisogno di sparare lì dove si trovava, se le circostanze lo avessero permesso. Preparò le fiale all’interno degli appositi proiettili speciali. Pensò che due fossero più che sufficienti. Del resto in vita sua non aveva mai sbagliato un colpo. Posò l’arma carica sul sedile del passeggero e attese.
La posizione era ideale. Una zona tranquilla, abbastanza isolata e poco frequentata. C’erano tre costruzioni intorno. Una sembrava disabitata, l’altra non si capiva, ma era nascosta alla vista da un albero dalla chioma rigogliosa, e come non vedeva lui neanche gli occupanti della casa, ammesso che esistessero, potevano vederlo. Del resto, poi, lui era un maestro nell’arte del mimetismo. Aveva scelto quel modello di automobile proprio per la necessità di passare inosservato: un’auto anonima di colore anonimo, come tante e nessuna.
Dalla casa della preda non si avvertiva nessun movimento. Una villetta su due piani. Un unico citofono. Un cancello socchiuso. Un portone chiuso. Due finestre chiuse al piano di sotto. Una finestra aperta al piano di sopra, con una tenda bianca che svolazzava sospinta dalla brezza. Nessun’ombra. Nessun rumore.
Si accese una sigaretta, mentre il suo corpo seguiva la forma dell’ombra dell’albero che aveva di fronte. Erano invisibili, lui, l’auto e anche il fumo della sua sigaretta. Un tutt’uno con l’ambiente circostante, seppur nuovo e sconosciuto. L’arte del mimetismo è qualcosa che fa parte del corredo cromosomico, non ci si può improvvisare.
L’attesa per lui non era un problema. Molte persone abbandonavano presto un lavoro come il suo perché non erano in grado di gestire le lunghe ed estenuanti attese. Lui no. Per lui il tempo era un’opinione e il lavoro una fede.
Intanto l’orologio camminava e il sole cominciava ad assopirsi sulle nuvole basse. Le sigarette si moltiplicarono e ancora non si era visto nessuno. Nessun rumore, nessun movimento.
La sua auto ormai faceva parte del paesaggio come se fosse stata sempre là. Probabilmente anche chi abitava in quelle case, ammesso che ci fosse qualcuno, non ci avrebbe mai fatto caso.
Le ombre si stavano allungando sul marciapiede. Le mura della casa si tinsero di una tonalità di rosa sempre più intensa. Poi, finalmente, giunse una macchina; una piccola utilitaria grigia. Si fermò proprio accanto al cancello dell’abitazione della preda. Lo sportello si aprì. Olaf abbassò il finestrino del lato del passeggero e preparò l’arma. Scese una giovane donna bionda avvolta da un vestito attillato.
Olaf scosse la testa. Non era il momento di distrazioni. Non era quello che attendevano le sue pallottole cariche di sonno senza sogni. Ripose il fucile e seguì con lo sguardo le forme della ragazza sino a quando scomparvero dietro l’angolo. Evidentemente non abitava lì, era solo di passaggio. Però quell’auto parcheggiata nel bel mezzo della sua traiettoria non era l’ideale: avrebbe potuto compromettere l’operazione. Se poi la donna fosse rientrata verso l’auto nel momento del tiro a segno sarebbe stato addirittura un disastro irrimediabile. Olaf sperò e pregò che la ragazza rientrasse prima del cinese. E così avvenne. Le curve della bionda si infilarono in macchina con un paio di buste al seguito.
Il cacciatore tirò un sospiro di sollievo e la seguì sino a quando scomparve dal suo campo visivo. Accese un’ultima sigaretta; era sicuro che fosse quella buona. Alla terza boccata arrivò un’altra automobile. Si parcheggiò nello stesso punto dove c’era prima l’auto bionda. Lo sportello si aprì. Olaf di risposta aprì nuovamente il finestrino. Preparò il fucile nel silenzio assoluto. Non avvertiva neanche il proprio respiro. Dallo sportello spuntò fuori una gamba rivestita da un pantalone maschile e conclusa con una scarpa anch’essa maschile, vecchia e usurata. Il resto del corpo tardò ad arrivare. Ma il cecchino non si scompose. Il respiro leggero e impercettibile non faceva spostare di un solo decimo di millimetro l’arma. Le mani ferme senza un tremito. Apparve una borsa. E subito dopo la testa del cinese.
Il dito indice della mano destra di Olaf esercitò una leggera pressione sul grilletto e la fiala di anestetico partì verso l’obiettivo nel silenzio assoluto. Dopo un battito di ciglia il cinese era in terra, esanime. 
Gli occhi di Olaf rotearono intorno alla scena. Non c’era nessuno. Nessuno si era accorto di niente. Le finestre delle altre case non davano segni di vita, la strada non dava segni di vita e neanche il cinese.
Posò il fucile e prese il coltello. Aprì lo sportello lentamente e scese dall’auto. Con passo veloce e silenzioso raggiunse il corpo accasciato sul marciapiede. Aprì con un calcio il cancelletto dell’abitazione e trascinò il corpo all’interno del cortile, lontano da sguardi indiscreti. Lo girò a pancia in su e attese che sopraggiungesse il crepuscolo. La luna stava sorgendo. Si fermò ad ammirarla, era piena e luminosa come richiedeva la tradizione. Si accese un’altra sigaretta e attese pazientemente il buio. Il silenzio intorno a sé, l’assegno in tasca e il bottino a pochi centimetri dal suo coltello.
Spense la sigaretta schiacciandola con la punta della scarpa; l'avrebbe recuperata prima di andare via insieme alla siringa. Un’occhiata all’orologio, un’altra alla luna ed era pronto. Tirò via la cinta al cinese e gli abbassò i pantaloni. Si guardò intorno prima di procedere al taglio. Non c’era nessuno. Estrasse l’involucro destinato ad accogliere il prezioso pezzo di carne e lo posò accanto al corpo. Tutto era perfetto per l’intervento. Un ultimo sospiro e tirò giù le mutande dell’uomo con uno strattone deciso e fulmineo. La lama luccicava sotto i raggi della luna, o forse era il lampione sulla strada. L’altra mano era pronta ad afferrare per la testa la preziosa appendice da recidere.
Ma non trovò quello ci sarebbe dovuto essere, davanti a suoi occhi c’era solo una lunga e orribile cicatrice. Il segno del suo coltello era inequivocabile, Olaf lì c’era già passato.

- Cazz…


***

Il corno del rinoceronte è composto da cheratina, come i nostri capelli e le nostre unghie. Eppure questa specie è ancora oggi a rischio d'estinzione a causa dei bracconieri foraggiati dal ripugnante mercato della "medicina tradizionale" asiatica, principalmente in Cina e Vietnam. Solo in Sudafrica nel 2018 sono stati uccisi 769 esemplari e 594 nel 2019. Ormai restano solo circa 10.000 rinoceronti in Africa e poco più di 2.000 in Asia tra rinoceronti indiani, quelli di Sumatra e i pochissimi esemplari di Giava. Anche il rinoceronte nero africano è praticamente estinto.
Il prezzo della pozione miracolosa è lievitato sino a raggiungere i 100.000 dollari al chilo, da quando un idiota di ministro vietnamita ha affermato di essere guarito dal cancro usando la polvere di corno di rinoceronte. Da quel momento c'è stata una grande crescita del numero di animali uccisi per ottenere la preziosa cura a base di "unghie e capelli" tritati, un gran bel rimedio per tutti i mali dall'impotenza al cancro. In oriente c'è chi ingerisce questa polvere di unghie come afrodisiaco. Noi, fortunatamente, ci limitiamo a mangiarci le nostre di unghie... 


La Cura.

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