"In quella vecchia casa i ripidi gradini di pietra erano parzialmente ricoperti di muschio. Solo la parte centrale, scavata dal continuo sali e scendi di numerosi piedi, ne era priva. La ringhiera era dipinta di arancione, ma la ruggine aveva avuto la meglio sulla vernice in più punti; qualche bullone aveva ceduto e, perciò, non garantiva un appoggio sicuro. Non garantiva alcunché, a dire il vero.
Le porte di legno dipinte di grigio, e mai rinnovate da mani di vernice fresca, si affacciavano, lassù in alto, su un piccolo corridoio aperto.
Anche il bagno aveva trovato spazio all’esterno, dopo la prima rampa di scale; l’intimità era garantita da una piccola porta grossolanamente rifinita, sotto la quale s’insinuavano il vento, l’acqua e la luce.
Un’altra rampa di scale conduceva al piano superiore dove, ai lati di un secondo corridoio aperto, si trovavano altre stanze, anch’esse chiuse da vecchie porte che si affidavano a vecchi cardini arrugginiti per svolgere dignitosamente la propria funzione.
La luce del mondo esterno era tenuta a bada da delle vecchie veneziane bianche che avevano ceduto in più punti, e quando tirava vento - e qui il vento spirava quasi sempre - si agitavano rumorosamente, aggrappate disperatamente alle loro esili cordicelle. Nelle notti dilaniate dal maestrale urlavano come bestie ferite. Di giorno, quando l’aria si faceva calma e accondiscendente, scricchiolavano e cercavano di darsi un contegno, nonostante le macchie di fuliggine e lo spesso strato di polvere incrostata che ricopriva una buona parte delle stecche.
In quella vecchia casa aveva vissuto una famiglia, con i propri ricordi e le proprie storie, gioie e dolori. Ma adesso le stanze si erano svuotate, le crepe erano diventate adulte, erano cresciute, e si erano sviluppate come piante rampicanti. Qualche cardine aveva ceduto e il vento e la polvere avevano fatto di quella vecchia casa la propria dimora.
Dentro le stanze vuote, tra le mura scrostate e la sporcizia accumulata negli angoli, avevano trovato rifugio numerosi insetti: scarafaggi, falene, una grande colonia di formiche e anche una famiglia di piccioni diseredati.
In una di queste stanze troneggiava ancora una vecchia credenza malferma su tre piedi e ricoperta di ragnatele, e sotto di essa si era stabilito un vecchio gatto arancione, un solitario, ricoperto di cicatrici di numerosi scontri con i suoi simili e con altri animali. Di giorno se ne stava lì al sicuro, lontano dai rischi della città e dalle intemperanze del clima. Nel suo giaciglio di foglie secche, polvere e cartacce, trascorreva le ore nell’ozio più assoluto.
Di notte, invece, scendeva dalla scala e si dedicava alla caccia nei vicoli stretti e male illuminati e nelle piazze polverose dominate dal silenzio e dal vento.
A differenza di molti suoi simili non era mai stato accolto in una delle case dove vivevano gli uomini. Aveva sempre vissuto da solo, senza il conforto dell’affetto di quelli lì e senza la sicurezza di un pasto quotidiano. Altro che casa riscaldata, morbide coperte e accoglienti divani. Doveva cacciare altri animali per sopravvivere. Doveva combattere contro altri gatti per garantirsi il diritto di un territorio tutto suo. Doveva correre quando incontrava un branco di cani randagi o anche solo uno di loro. Tutte le notti. Nonostante il freddo, la pioggia, il vento e l’età che avanzava con il suo corredo di acciacchi e di difficoltà sempre nuove e sempre più preoccupanti.
Per il resto non aveva tanti vizi né molte pretese; gli bastava prendere un topolino, un pipistrello o un pulcino di volatile ogni tanto, magari una volta al giorno o anche un giorno si e uno no. O anche meno. Era uno che si sapeva accontentare.
Il sabato sera, però, gradiva non poco fumarsi una sigaretta e sorseggiare un buon bicchiere in compagnia. Non era il tipo che si lasciava tentare da droghe e sostanze sintetiche di ultima generazione, e non gli piacevano le discoteche, il rumore e la folla. Non era attratto dalle nuove tendenze. Era un tradizionalista.
Ma ultimamente per lui era diventato impossibile soddisfare queste piccole esigenze. Non aveva più i soldi per recarsi in un bar o anche solo in una bettola. Non aveva più soldi neanche per comprarsi le sigarette, neanche per quelle più economiche e tossiche. Tantomeno aveva i soldi per andare a mignotte. E poi, soprattutto, non aveva più compagnia. Di nessun genere.
Femmine manco a parlarne. Altri maschi con cui disquisire di calcio, donne e politica, meno che niente. Era solo.
Ma aveva una casa. Il che non era poco.
Certo, la doveva condividere con altri inquilini, e non tutti questi erano brave persone o simpatici compagni con cui trascorrere amichevolmente le lunghe e fredde giornate d’inverno. Anzi, alcuni di loro - come la famiglia di piccioni, per esempio - erano spocchiosi, tirchi e antipatici. Ma almeno aveva un tetto (seppur rotto e instabile), un letto (di foglie, pulci e spazzatura) e una (scarsa) riserva di caccia là fuori, nei vicoli intorno alla casa.
Non tutti i gatti randagi potevano affermare altrettanto.
Però i suoi sabato sera, ormai, erano vuoti e tristi. Li trascorreva a leccarsi le ferite, a grattarsi via le pulci e a guardare fuori dalla finestra. Mentre gli altri, quelli che potevano, si divertivano, bevevano e fumavano tutte le sigarette del mondo.
Lui invece no.
Il muso schiacciato sul vetro appannato, le veneziane che si agitavano in preda al ballo di san Vito e la polvere che gli invadeva le narici.
Questo era il massimo del divertimento che gli era concesso. Né più né meno.
In ogni caso aveva sempre il suo rifugio, la sua vecchia credenza, nobile decaduta, ma ancora fiera e imponente con i suoi intarsi vezzosi. Qui dentro, dentro i cassetti e la vetrata infranta, nascondeva i suoi cimeli: lo scheletro di un topo che gli aveva dato filo da torcere, qualche posata, un paio di bicchieri scheggiati e sporchi, una moneta da un centesimo, un tappo di sughero, una vecchia pipa rotta, una cavalletta mummificata, un gomitolo di lana e un paio di biglie colorate.
Non possedeva altro.
Ma la vecchia casa aveva in serbo per lui una sorpresa.
Una sera, un sabato sera, lui, il vecchio gatto arancione, era intento a osservare il via vai di gente dalla sua finestra. Pioveva e faceva freddo più del solito, eppure il traffico nel vicolo era notevole. Una lunga fila di uomini si muoveva a passo spedito sotto i loro cappelli a larga tesa, sospinti dalle folate di vento o forse solo dalla fretta. Mentre il gruppo svaniva dietro l’angolo con i lembi dei cappotti svolazzanti, seguirono alcune donne con le teste avvolte in pesanti sciarpe e i passi rumorosi che nonostante tutto non coprivano la scia del loro chiacchiericcio appena sfumato dal vento. Qualcuna di loro aveva l’ombrello, ma questi baluardi contro la furia delle acque erano pressoché inutili, se non controproducenti, a causa del vento che li girava a destra e sinistra e li piegava a proprio piacere. L’ultima donna della fila, subito dietro l’ultimo ombrello contorto, una vecchietta minuta, scivolò sull’asfalto umido per la pioggia. Cadde rovinosamente a terra con la lunga gonna rivoltata sul viso e con le gambette grassocce per aria.
Il gatto osservò divertito la scena con il naso schiacciato sul vetro sporco. Non aveva mai visto una femmina di umano con la gonna sollevata e soprattutto con un mutandone rosa come quello.
Per una attimo pensò al consorte di quella donna e ritenne di non essere poi così sfortunato ad appartenere a un’altra specie.
Avrebbe voluto un goccetto di liquore per festeggiare, ma non ne aveva.
Desiderava con tutte le forze anche un solo tiro di sigaretta, ma non ne aveva.
E con un sospiro se ne fece una ragione.
Intanto le altre donne stavano tirando su la vecchietta che si lamentava con una vocina delicata e leggera come un martello pneumatico. Mentre la rimettevano in sesto si avvicinò a lei anche un cane di piccola taglia, le annusò le zampe e poi levò lo sguardo in alto verso la finestra.
Al gatto si raggelò il sangue nelle vene. Avvertì quegli occhi furbi e malefici su di sé. Dentro di sé.
Nonostante il buio e la distanza quel piccolo cane era riuscito a vederlo, aveva violato il suo nascondiglio segreto, la sua privacy.
E non gli toglieva gli occhi di dosso. Anche quando sollevò una zampa e innaffiò di urina le gambette grassocce della vecchietta.
Il gatto si ritrasse dalla visuale di quella bestia malintenzionata con un paio di passi indietro, ma quando era ben distante dalla finestra e stava iniziando a rilassare i muscoli tesi e il cuore palpitante, una parte del soffitto, proprio sopra la sua testa, cedette e lo seppellì di calcinacci.
Lui ebbe solo il tempo i pensare a quanti anni avesse resistito quel maledetto soffitto prima di crollare, alla pioggia, al mutandone rosa e a quel figlio di una cagna puttana laggiù. Poi, l’ultima pietra sulla testa mise fine ai suoi pensieri.
Quella vecchia casa gli aveva fatto proprio una sorpresa di merda."
Questo racconto fa parte del volume "Zuppa di Mitocondri":
Il titolo "This Old House" è liberamente ispirato dalla canzone omonima dei grandiosi Madrugada, contenuta nell'album "Industrial Silence" del 1999. Anche se (apparentemente) il testo della canzone non ha molto a che spartire con questa storia, le due cose sono legate in maniera indissolubile...mi dispiace per i Madrugada ma, se non altro, questa splendida canzone - della quale trovate un video qui sotto - può alleviare gli spasmi intestinali di chi si è dovuto sorbire quest'ennesima trash novel.
Il racconto costituiva la "bonus track" del libro e sinora non era mai apparso sul web (qualcuno, forse non a torto, sostiene che doveva continuare a recitare la parte del fantasma), ma una volta uscito il libro non aveva senso tenerlo rinchiuso nel cassetto o lasciarlo solo ai pochi...ehm..."fortunati" che hanno acquistato o si sono scaricati "Zuppa di Mitocondri". O no?
Boh, non saprei. In ogni caso si può anche saltare a piè pari: probabilmente c'è molto di meglio da leggere gratis in giro per il mondo...la mano, per esempio.