Premessa:
Il delirio che trovate qui sotto è un vecchio raccontino che è nato e cresciuto in alcuni fogli sparsi e pizzini vari a cavallo tra il 2018 e il 2019. Solo in questi giorni ho trovato il coraggio di ricucire il tutto, cercando di non snaturare l'idea originale, ammesso che ce ne sia mai stata una. Questa gran cagata è partita dall'intenzione di scrivere un racconto che, prendendo come spunto il romanzo di Brizzi "Jack Frusciante è uscito dal gruppo", dovesse svolgersi nel mondo che ruota attorno alla Dinamo Sassari e al basket. Il risultato finale non è granché, ma non ci posso fare nulla: fa troppo caldo e i miei neuroni sopravvissuti sono disidratati e stanchi. Mi dispiace per il grande Jack Cooley e la Dinamo-Banco di Sardegna. Consiglio a tutti di non leggere questa roba...
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Presto sarebbe volato via. Eppure anche lui era lì, in Piazza d’Italia, in mezzo al mare di gente biancoblu a gioire come un bambino. Un bambino di centoventi chili, e con lui altri cinquemila bambini di ogni età. Era tutto finito, ma lui era lì, nel mare.
Non avevamo vinto niente ma tutto lasciava pensare che lo si avesse fatto. Ancora una volta.
C’erano però ventidue perle conquistate in sequenza, una dietro l’altra, come uno tsunami inarrestabile e poi la tappa finale a bagnomaria in un catino bollente, lassù nel nord-est. Un sogno durato sino alla settima battaglia in casa del Doge.
la repubblica marinara aveva incassato il premio e gli onori, eppure il resto del mondo è stato sino all’ultimo con Jack, con il mitico condottiero da Formentera e con gli altri eroi dell’Anno Domini biancoblu 2019.
La favola si nutriva e cresceva con nuove storie e nuovi eroi. Big Jack era uno di quelli, uno di quelli che non ti scordi mai. Un totem al centro dell’area, un Gigante di quelli dei bei tempi andati, come non se ne vedeva più da secoli.
Nel mondo, e in quel mondo, c’erano diverse tipologie di eroi: c’era chi doveva occuparsi solo di ragionare e decidere per gli altri; chi era fornito di un buon corredo di estro e audacia e chi, come lui, doveva prendere colpi senza oscillare né cedere un solo centimetro. Doveva solo lanciare la propria manona più in alto degli avversari e lui ci riusciva quasi sempre, a volte buttando giù tutta una serie di birilli, a volte resistendo stoicamente alle legnate della retroguardia nemica.
Tuttavia non c’era solo lui. Gli artefici di quelle epiche gesta nella stagione 2018-2019 erano tanti e nessuno era meno importante dell’altro. Il capo della banda era Il Poz, il capitano era l’altro Jack, Devecchi, e il resto dei musici era quanto di meglio si poteva richiedere per un’orchestra di classe superiore: Marco Spissu, Jamie Smith, Rashawn Thomas, Dyshawn Pierre, Stefano Gentile, Achille Polonara, Tyrus McGee, Daniele Magro, Justin Carter e prima ancora Scott Bamforth e anche - perché no? - Vincenzo Esposito e lo sfortunato ectoplasma di Terran Petteway.
Dopo uno Scudetto, due Coppe Italia, una Supercoppa (che sarebbero diventate due pochi mesi dopo) e una coppa europea, tutti attendevano l’impresa. Dopo una serie infinita di vittorie, Brindisi che cadeva ai quarti e la corazzata Milano che affondò nella Pearl Harbor della semifinale, il secondo scudetto si squagliò nel forno di un palazzo veneziano, cotto a puntino da un’abile chef stellato. La sauna finlandese della settima battaglia aveva squagliato i Giganti e anche il loro popolo al seguito, rinchiuso in un acquario tropicale.
Tuttavia, come dicevo, la banda venne accolta trionfalmente in città con trombe, coriandoli, mortai, vessilli al vento, canti e cori, tappeti rossi e qualche lacrima. Il popolo era con loro e loro erano con il popolo, in un tutt’uno indistinguibile. Gli eroi cambiavano quasi ogni anno, salvo rare eccezioni, ma la fede è fede; quella non si cambia mai.
Comunque in quella circostanza come in altre la birra correva a fiumi e i venditori della stessa correvano dietro a chi dimenticava di pagare. Come sempre. Bisognava festeggiare le epiche gesta dei Giganti, con o senza trofeo. Lo meritavano più di chiunque altro.
Mentre la palla rimbalzava ancora sul parquet - e la fame di trofei non andava scemando affatto nella corte di Sardara - Jack Ryan Cooley volò in Giappone a buttare giù un po’ di birilli con gli occhi a mandorla e a leggere un manga che aveva lui stesso come protagonista.
Gianni, Franco, Dino e Salvatore ancora discutevano se il centro più forte mai visto in biancoblu fosse lui o Shane Lawal, se la bandiera della serie A sassarese fosse Travis Diener o il professor Logan o anche Spissu, l’eroe di casa. La discussione era accesa come sempre quando si parlava di sport e della Dinamo in particolare. Gianni era particolarmente legato alle apparizioni fugaci - quelle da una sola stagione, breve ma intensa - quali quelle di Trevor Lacey o di Jerome Dyson o di Savanovic o anche Rakim Sanders. Franco - che era il più anziano - aveva il poster di Travis Diener al quale rivolgeva una preghiera tutte le sere prima di addormentarsi. Ma non disdegnava un pensiero anche per il cugino Drake, Othello Hunter, James White, Bootsy Thornton o Caleb Green. Era affezionato al passato, alla prima coppa Italia, e più di tutto alla promozione nella massima serie avvenuta ben dieci anni prima. Salvatore era il più grande fan di Jack Cooley mai visto sul pianeta terra. Se solo avesse potuto avrebbe pagato lui stesso l’ingaggio per tenerlo a Sassari, ma non aveva quei soldi. Probabilmente avrebbe potuto permettersi al massimo di comprargli le scarpe o pagargli il conto dal parrucchiere. Niente di più. Dino se ne fregava e si limitava ad annuire. Qualcuno degli amici aveva sempre sospettato che lui un capisse un cazzo di basket e che seguisse le sorti della Dinamo solo grazie al principio dei vasi comunicanti.
In ogni caso solo Pierre era in grado di mettere d’accordo tutti.
Quella sera discutevano davanti a un notevole spiegamento di bottiglie di Ichnusa non filtrata. L’esercito era schierato e le trincee disposte a difendere il territorio stavano cominciando a cedere. Franco era quello che pareva più in difficoltà a reggere l’impatto dell’avanzata del nemico; la sua lingua cominciava ad arrotolarsi in un’indistinguibile accozzaglia di suoni cacofonici. Gli altri resistevano stoicamente, tenuti in piedi dall’appassionate gioco del mercato di fine stagione. Inevitabilmente persi Thomas e big Jack, anche loro si stavano perdendo nel fantabasket non filtrato. Comunque tutto avrebbe dovuto ruotare intorno al mago di Poz. Obbligatoriamente. Una volta perso il mai dimenticato maestro Meo Sacchetti, il Poz doveva essere necessariamente il cardine sul quale far ruotare tutto il resto. Su questo erano d’accordo tutti e quattro. Si potevano spostare tutte le pedine che si voleva ma è il Re era lui e non si poteva toccare neanche per scherzo.
Salvatore, per sottolineare la sua affermazione con la maggior enfasi possibile, si fece scappare una serie di rutti aromatici in grado di stendere l’intera Venezia, squadra e gondole comprese. Lui non aveva ancora digerito il 4-3 finale. Anzi non aveva digerito e basta.
Dino venne investito dal getto di aria putrida, ma non si scompose più di tanto: incassò il colpo e porse l’altra narice. Probabilmente era anestetizzato dalle bollicine al malto d’orzo o forse non era provvisto di un adeguato corredo di cellule olfattive.
Franco scosse la regina e la inviò all’attacco delle linee nemiche. La regina in questo caso non poteva che essere TD12. Anche se stagionato era sempre una sicurezza: estro, classe, intelligenza, esperienza e tiro non gli mancavano affatto.
Salvatore rispose con l’alfiere Pierre, chiuse la via al genio di Fond du Lac, proteggendo al contempo il Re dalla minaccia.
Il problema era che il re era lo stesso in tutti e due i lati opposti della scacchiera e poi Salvatore non aveva i soldi neanche per tenere Dyshawn Pierre. Già il miracolo si era protratto per due stagioni consecutive, sarebbe servito un terzo clamoroso colpo di scena (che poi alla fine arrivò) per bloccare il canadese.
Dino - che non capiva un cazzo di basket e nemmeno di scacchi - lanciò al galoppo il cavallo Teodosic, scavalcando le prime linee degli avversari, quei piccoletti che sono buoni solo per essere mangiati.
Gli altri tre si fermarono di colpo. Ingurgitarono un gran bel sorso a testa, in contemporanea, e lo mandarono affanculo a reti unificate.
Non c’erano danari sufficienti neanche per un calzino di Teodosic, figuriamoci per tutto l’individuo calzato e vestito. Più tardi si scoprì che il serbo gradiva particolarmente i tortellini e la mortadella.
Dino ritirò il suo cavallo. Spostò in avanti la torre Cooley e quella mossa piacque apparentemente a tutti. Anche se poi gli altri tre scossero la testa perché sapevano che il sushi più buono si mangia in Giappone.
La partita a scacchi si chiuse lì, senza vincitori né vinti. La campagna acquisti - quella vera - stava prendendo forma e un certo peso da altre parti. Circolavano già nomi importanti come Michele Vitali, l’altro Gentile, Della Valle e altri pezzi pregiati. Dopo qualche giorno di mare, e tante voci che si rincorrevano e si smentivano vicendevolmente, arrivarono i primi colpi di scena: McLean e Jerrels, il succitato Vitali e poi Miro Bilan ed Evans. Riuscirono finanche a tenere Pierre per il terzo anno consecutivo. La scacchiera biancoblu si andava popolando di pezzi importanti.
Jack Cooley era uscito dal gruppo, i Red Hot Chili Peppers suonavano ancora, mentre l’estate raggiungeva il suo culmine. Tuttavia i nuovi arrivi parevano niente affatto male. Era soprattutto Curtis Jerrels ad aprire l’orizzonte e a far volare la fantasia.
Gianni, Franco, Dino e Salvatore, sotto l’ombrellone, apparivano decisamente soddisfatti. Il giornale spiegazzato non riusciva a sostenere la brezza marina ma il suo dovere lo aveva fatto fino in fondo.
I quattro amici decisero di smettere di studiare anatomia umana per un po’, ritirarono le loro cose e abbandonarono momentaneamente il dibattito sui bikini e il loro contenuto. Si infilarono sotto la tettoia del chiosco nel lungo mare per festeggiare la nuova stagione alle porte.
Con i baffi conditi di schiuma e le papille gustative rinfrescate dalla birra ghiacciata la vita pareva ancora più bella.
Gli sguardi si perdevano ancora tra gli sciami di fanciulle colorate e il riverbero del sole. Tuttavia le loro teste erano già sintonizzate con lo speaker del PalaSerradimigni, il sudore, la musica, l’adrenalina e lo stridio della scarpette sul parquet. Il campionato incombeva e, come sempre, sarebbe subentrato il problema dei biglietti da acquistare e del volontario che si doveva svegliare all’alba per fare la fila alla biglietteria. Il palazzetto era piccolo e la gente mormorava.
Solo cinquemila prescelti potevano assistere alle battaglie dentro il fortino sassarese, ma chi riusciva a trovare posto sui seggiolini si portava appresso l’isola intera e tutti i suoi abitanti.
Passarono i giorni, i bagni, i bikini e finanche le ferie. Gianni, Franco, Dino e Salvatore ripresero il lavoro a reti unificate, proprio mentre la nuova stagione stava per iniziare.
Dino venne estratto a sorte per fare la fila per prendere i biglietti della prima gara interna della stagione. Qualcuno ipotizzò che ci fossero stati dei brogli nell’estrazione, ma non si ebbero mai prove certe in merito a queste accuse e quindi Dino accettò il suo destino senza proferire parola. La sveglia lo buttò giù dal letto all’alba o giù di lì, tuttavia l'entusiasmo non si era perso nel cuscino e anzi si destò con una certa foga. La nuova stagione era partita con una grande vittoria in trasferta, perciò non si poteva mancare all’appuntamento con la prima casalinga.
Ingoiò un paio di biscotti con l’aiuto di un caffè what else e si infilò in macchina per affrontare il centinaio di chilometri che lo separavano dal Dinamo Store. Di certo c’era anche l’opzione dell’acquisto online, ma Gianni, Franco e Salvatore erano dei tradizionalisti e, salvo rare eccezioni, diffidavano di tutto quello che albergava in quelle scatole di plastica e metallo che tutti chiamavano computer. Non era uno di loro.
La strada scivolò via sotto le ruote senza alcun intoppo, con l’aiuto di una buona compilation e qualche caramella per scacciare il sapore della notte. L’entusiasmo sempre accanto, lì nel sedile del passeggero.
Arrivò in Piazzale Segni e lì lasciò il mezzo di trasporto. C’era già un gruppetto di persone in fila quando ancora mancavano una ventina di minuti all’apertura dello store. Fortunatamente c’era in programma Pesaro per quella seconda giornata di campionato e non una big, cosicché la fila non era di certo di quelle modello caritas all’ora di punta. Dino rimembrò quando in occasione di una sfida contro Milano aveva bivaccato dalla sera prima per assicurarsi i soliti quattro preziosi biglietti. In quella circostanza si era dovuto organizzare con un’adeguata scorta di cibo, bevande e sigarette, nonché un sacco a pelo per poter schiacciare un pisolino al momento del bisogno.
Quella notte non riuscì a dormire ma indubbiamente ne valse la pena.
Dieci minuti all’apertura.
Mentre Dino era intento a spolverare i ricordi, suonò il telefono. Come previsto dal protocollo era Salvatore che chiamava per accertarsi che il prescelto fosse “sul pezzo” e non sul materasso. Dopo una rapida sequenza di sfanculi assortiti, Dino chiuse il telefono e si voltò verso la coda all’imbocco della biglietteria. Le nuche che occludevano l’orizzonte poco prima non c’erano più, eppure mancavano ancora cinque o sei minuti all’apertura.
Ruotò sul piede perno per avere una visione a trecentosessanta gradi, ma non vi era traccia alcuna della decina di persone che aveva davanti solo pochi istanti prima. Erano svaniti nel nulla.
Il Dinamo Store era ancora chiuso anche se l’orologio era di tutt'altro avviso. Non c’era nessuno, né dentro né fuori.
Di fronte, dall’altro lato della strada, il PalaSerradimigni si ergeva silente e vuoto, con i raggi del sole che gli donavano un po’ di colore e i cancelli serrati per proteggersi da eventuali curiosi, passanti e cazzeggiatori vari, se solo ci fossero stati.
In fondo il piazzale era deserto. La macchina di Dino c’era ancora, ma era sola accanto a un lampione nel bel mezzo del nulla.
Nonostante fossero ormai le dieci del mattino non c’era nessuno, non passava un’auto che fosse una, né un pedone neanche a pagarlo.
Tuttavia Dino non si scompose più di tanto, se non altro in un primo momento. Pensò che ci doveva pur essere un qualche straccio di spiegazione al deserto improvviso che si era formato intorno a lui. Provò a chiamare nell’ordine: il numero della biglietteria, il negozio, la club house, il palazzetto, la sede della società e per ultimo anche quel rompi coglioni di Salvatore.
Non rispose nessuno.
Ripose il telefono in tasca. Si accese una sigaretta e quindi riunì tutti i neuroni presenti per fare il punto della situazione. La nicotina e la nuvoletta di fumo l’avrebbe dovuto aiutare a riflettere, o almeno questo avveniva solitamente, in situazioni e condizioni normali. In quell’occasione invece non era affatto semplice trovare una soluzione rapida ed efficace. C’era qualcosa di anomalo in quella vicenda se non addirittura un qualche fenomeno paranormale o forse demoniaco.
Mentre la sua mente rincorreva demoni e alieni i suoi occhi vagavano tutt’intorno alla ricerca di un’ombra, di una forma di vita di qualsiasi genere.
Acciaradi a lu balconi, faccia di trudda…
Tra una boccata e l’altra di fumo suonò tutti i campanelli che trovò in via Nenni, alla ricerca di una spiegazione al mistero sempre più fitto e ingarbugliato. Con la speranza che prima o poi qualcuno lo degnasse di una risposta. Invece anche i citofoni tacquero e dai balconi non si affacciò nessuno.
Si sedette su un gradino all’ingresso di un palazzo. Stava prendendo seriamente in considerazione l'eventualità di sedersi in macchina e tornare a casa. A mani vuote.
Gli altri lo avrebbero coperto di insulti ma non poteva farci nulla. Dove si trovava non poteva acquistare nulla, né biglietti né niente altro. Si mise a giocare con il pulsante a scatto della chiave dell’auto, in attesa di una decisione che tardava ad arrivare.
Poi riprovò ancora una volta con il telefono, ma anche questo non gli diede retta. Per un attimo pensò a uno scherzo e si immaginò le commesse del negozio, i clienti e i passanti, tutti nascosti dietro un angolo che sbirciavano e ridacchiavano di lui.
Anche Dino ridacchiò.
Un attimo dopo il portone che aveva alle spalle si aprì con un cigolio metallico. Dino percepì la presenza di una figura di dimensioni notevoli che stava varcando la soglia. L’ombra che si stagliò sui gradini confermò la sua tesi. Balzò in piedi con uno scatto fulmineo che sorprese anche lui stesso, giusto in tempo per non essere travolto dal gigante. Si voltò rapidamente guadagnando al contempo qualche centimetro di sicurezza. Gli caddero le chiavi e la mandibola.
- Hi man. My name is Cooley, Jack Cooley.
Il suono era lontano, debole e ovattato, eppure fastidioso e irritante. Non voleva smettere. Un martello pneumatico immerso in un mare di batuffoli di cotone. Dino si girò sospinto dalle vibrazioni e in quel momento la mano incontrò la fonte del disturbo sotto il cuscino. Estrasse il martello pneumatico e se lo avvicinò al volto. Gli occhi arrossati dal sonno e socchiusi dalla cispa faticarono un po’ prima di mettere bene a fuoco quello che aveva davanti.
- Salvatore?!?
Prima di rispondere guardò l’orario. Erano le undici e mezza e lui era nella sua stanza, a letto. Di Jack Cooley non vi era traccia alcuna e, senza nulla togliere al mitico Jackone, la cosa non gli dispiacque affatto, date le circostanze. Tirò un sospiro di sollievo e rispose al martello pneumatico.
La voce dall’altro capo del telefono lo coprì di insulti, maledizioni, sputi, minacce, martellate e complimenti di ogni sorta. Dino incassò senza opporre resistenza. Era tardi, molto tardi. Non si era svegliato in tempo, anzi, non si era svegliato proprio. I biglietti erano probabilmente svaniti già da un’ora a un centinaio di chilometri di distanza.
Il PalaSerradimigni, la palla a spicchi e l’orchestra del Poz dovevano attendere ancora qualche settimana…
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