mercoledì 7 marzo 2018

Il gatto mannaro



Giù nella strada si facevano sempre strani incontri. Pareva che tutti i folli non avessero più una casa. Erano sempre tutti in giro, a vagare senza una meta, senza un perché. 
Alfonso era abituato a vivere in famiglia, nel tepore di un bell’appartamento al quinto piano di via Mazzini. Non gli era mai mancato niente, né il buon cibo, sempre fresco e vario, né l’affetto dei due vecchi, sempre premurosi e gentili. Un brutto giorno, però, i due vecchi tirarono le cuoia, uno dopo l’altro, senza alcun preavviso. Nella casa arrivarono due giovani sconosciuti, probabilmente grazie a un non meglio precisato grado di parentela con i vecchi proprietari. I due nuovi arrivati non attesero troppo prima di buttare tutto quello che c’era dentro le mura. Ma non si limitarono a questo, anche le mura, in alcuni punti, ebbero la loro parte di martellate e di conseguente distruzione. La casa si trasformò in un’altra cosa nel giro di pochi giorni. I ricordi, gli oggetti ai quali Alfonso si era affezionato, sparirono dentro il cassone di un grosso camion. Nel volgere di poche lune svanirono nel nulla la sua comoda cuccia, l’accogliente divano con le sue molle rumorose, il vecchio plaid, la ciotola e il caminetto. Il giorno dopo anche lui venne messo alla porta sotto la minaccia di una scopa.
L’habitat nel quale era cresciuto, dove aveva imparato tutto quello che sapeva della vita, non c’era più. E si ritrovò nella strada, al freddo, in mezzo a tutta una serie di pericoli sconosciuti e imprevedibili. In un mondo pieno di folli.
La sua prima preoccupazione sarebbe dovuta essere quella di procurarsi il cibo, invece questa necessità venne soppiantata praticamente subito da un’altra priorità: riuscire a rimanere vivo.
Nella strada c’erano grossi mezzi a due o più ruote che sfrecciavano a folli velocità e divoravano tutto quello che incontravano nel loro cammino. C’erano anche una moltitudine di canidi incazzosi che non davano tregua neanche per un solo istante. Vi erano poi gli umani in numero talmente elevato che era impossibile contarli. Questi erano i più pericolosi con le loro scope, i bastoni e le bombe a mano. Il male regnava sovrano nella strada, in tutte le sue atroci forme.
Alfonso aveva sempre vissuto in pace, in un ambiente democratico e civile. Non sapeva nulla della guerra, della fame, degli stenti e dell’odio. E non era abituato a dover avere a che fare con tutti quei folli.
Era impegnato a commiserarsi in un angolo del marciapiede quando dovette frantumare i suoi pensieri e correre con quanto fiato aveva in gola. Un enorme pitbull lo aveva adocchiato e si stava lanciando verso di lui, con gli occhi iniettati di sangue e la bava che gli colava dalle fauci spalancate. Alfonso non era particolarmente agile. La vita sedentaria e la mancanza di allenamento influivano decisamente sulla sua condizione fisica. Tuttavia riuscì a mettere in moto le sue giunture arrugginite e i suoi muscoli assopiti e avvolti nel lardo del benessere. Scalò una parete di mattoni rossi alta come l’Everest in una frazione di secondo, nonostante la pendenza e la mancanza di appigli. Arrivò in cima e si meravigliò di queste sue capacità inaspettate. Di sotto il cane ringhiava, inveiva e sbavava nel tentativo di fare un balzo alto quanto il suo. Ma, nonostante la rabbia e l’odio, non riuscì ad arrivare neanche a un quarto dell’altezza del muro.
Alfonso lo guardò con aria di sfida, grazie al muro e alla buona sorte. Prima si leccò i cuscinetti non troppo avvezzi alle scalate e alla corsa su sentieri impervi. Poi si sedette comodamente in cima al muro, avvolgendosi nella coda, e attese che il cane si decidesse a levarsi dai coglioni. Perché lui ce li aveva ancora. I due vecchi, pace all’anima loro, avevano l’animo sensibile. Avevano deciso di non tagliarglieli nonostante Alfonso avesse sempre vissuto dentro, in casa. Avevano deciso di sopportare l’odore della sua urina in quello che una volta era stato il suo territorio, prima dell’invasione, della confisca e dell’esilio.
Mentre rifletteva e rimpiangeva i bei tempi andati, si voltò dall’altra parte del muro. C’era un giardino incolto e selvatico come piaceva a lui, con tutta una serie di ripari apparentemente comodi e accoglienti, alcune ciotole sparse contenenti cibo e acqua. Gli pareva un miraggio, un’oasi, una fetta di paradiso nel bel mezzo di una terra ostile. Rizzò le orecchie e sintonizzò i sensi verso l’eden che aveva sotto il naso.
Dopo qualche istante di studio e meraviglia arrivarono Adamo ed Eva e altri abitanti del paradiso. Una donna umana, bassa e grassa, portava altre leccornie e il popolo si riuniva intorno a lei, in adorazione, quasi fosse l’apparizione della madonna. Erano tanti. Grigi, tigrati, siamesi, norvegesi, bianchi e neri come Silvestro.
Non era una galera. Forse neanche un paradiso, ma il cibo pareva invitante e la fame, dalle parti del suo apparato digerente, iniziava a fare la voce grossa. 
Alfonso, con l’acquolina in bocca, e un po’ di vertigini a causa della cima dell’Everest, decise di scendere a dare un’occhiata, e magari anche una leccata. Come un provetto sherpa si apprestò a calarsi lungo la pendice ma, dopo pochi passi, mise un piede in fallo e venne giù come una slavina. Atterrò sul terriccio, sul morbido. Fortunatamente non ci furono danni collaterali, gli ammortizzatori funzionarono come previsto dal codice genetico. Non riportò alcun danno. Si appiattì tra il muro e un cespuglio e osservò la popolazione autoctona. Nessuno lo aveva notato. Si deterse il sudore della fronte con il dorso della zampa, e tirò un sospiro di sollievo.
Per un attimo si immedesimò in uno di quegli umani dei film di guerra che tanto piacevano ai due vecchi. Gli avevano fatto venire l’orchite a forza di vedere film sul Vietnam e sulla guerra, ma qualcosa l’aveva imparata; non tutte le bombe vengono per nuocere. S’immaginò di essere nel corpo dei marines nel bel mezzo di una pericolosa missione al fronte.
I vietcong erano a pochi metri di distanza, nascosti nella fitta vegetazione. Faceva caldo e l’umidità cresceva di pari passo con la sua fame e con la paura. Era solo contro dieci, forse venti, soldati nemici ben armati e cattivissimi.
- ‘Fanculo Ho Chi Minh, non avrete il mio scalpo.
Ogni tanto faceva confusione con i film dei vecchi, del resto era un solo un gatto. Non si può pretendere di più.
Procedette strisciando in silenzio tra i ciuffi d’erba, incurante del pericolo, dritto verso la meta. Attraversò paludi infestate da coccodrilli, terreni minati e foreste ricolme di trappole mortali, guadò il Mekong e infine giunse a un bivio. A destra c’erano tre gatti che, evidentemente sazi, si rotolavano per terra e giocavano a rincorrersi, giulivi e sereni come il cielo sopra le loro teste. A sinistra c’era una ciotola colma di crocchette invitanti.
Si fermò e rifletté sul da farsi.
Se si fosse avvicinato ai suoi simili non poteva prevedere cosa sarebbe accaduto. Era in chiara inferiorità numerica e, oltretutto, era decisamente a corto di preparazione.
Se si fosse diretto verso la ciotola avrebbe dovuto porgere le terga al nemico.
la situazione era alquanto intricata.
Alla fine decise di affrontare il nemico e sfidare la sorte. Tanto, prima o poi, avrebbe dovuto farlo.
Sfoderò la coda delle migliori occasioni e un sorriso degno di uno spot del dentifricio più trendy.
- Ehi, salve ragazzi!
I tre si fermarono come paralizzati. Uno era sotto, l’altro, quello che stava sopra, aveva un ciuffo di peli in bocca del compagno di giochi. Il terzo aveva le unghie conficcate dentro il tronco di un arbusto. Tutti e tre lo fissarono, immobili come statue. Calò una cappa di silenzio, pesante e opprimente.
Alfonso seguitò a sorridere, ma non indietreggiò. Tre paia di occhi di ghiaccio gli si piantarono addosso senza tregua, nel silenzio assoluto.
- Ciao, mi chiamo… 
Provò a dire, ma non fece in tempo a finire la frase che i tre gli si avventarono contro contemporaneamente, come se fossero una cosa sola, un unico essere vivente.
Lo malmenarono senza pietà. Alfonso rimpianse le fauci del pitbull, urlò e provò a difendersi mettendo mano a tutte le scorte di energia a disposizione. Tuttavia non riuscì a combinare granché. Lo pestarono a sangue.
Infine riuscì a liberarsi dalla morse del mostro a tre teste e corse a perdifiato verso i piedi della sua montagna. La scalò in un battito di ciglia, mentre il mostro gli stava alle calcagna e non mollava un solo centimetro.
Si lanciò dall’altra parte della barricata, incurante del pitbull e di altre possibili minacce. Quindi trovò una casa abbandonata e vi si infilò dentro, senza pensarci un attimo. Il cuore galoppava impetuoso, il fiato era corto e il pelo era andato via in più punti. Si nascose dietro un vecchio mobile e provò a fare un inventario dei danni riportati nel combattimento. Si leccò le ferite e provò a dare un’adeguata dose di ossigeno ai polmoni.
- Che giornata di merda…
Forse gli sarebbe stato utile un dottore, del disinfettante, qualche punto di sutura e magari un po’ di ossigeno o un inalatore al cortisone. Ma i vecchi non c’erano più e nessuno si occupava più di lui.
Si accucciò in mezzo alla polvere e ai detriti e provò a riposare un po’.
Intanto fuori calavano le tenebre e questo lo rassicurò. L’oscurità poteva essere un buon alleato nella sua situazione, a un passo dal fronte.
Dalla sua posizione poteva controllare la strada senza essere visto. I tenui bagliori dei lampioni non riuscivano a entrare dentro la sua tana, ma illuminavano quanto basta il perimetro della fortezza. In caso di un attacco improvviso avrebbe avuto il tempo di vedere le ombre dei nemici ancor prima che questi si avvicinassero. Era finalmente al sicuro. Con la pancia vuota, ma al sicuro.
Mentre era intento a commiserarsi e ad ascoltare il ricco campionario di dolori assortiti che provenivano da tutto il corpo, la luna si stagliò in alto nel cielo nero, superò alcuni palazzi e si rifletté sui suoi occhi, attraverso i vetri rotti di una finestra che aveva di fronte.
Si lasciò bagnare dai raggi pallidi che fendevano le tenebre e chiuse gli occhi. Sopraggiunse un sonno leggero e agitato dal dolore, dalla fame e da tutta una serie di incubi terrificanti. I brividi correvano veloci lungo la schiena, le zampe tremavano e anche i denti gli facevano male. Quest’ultimo però era un dolore diverso. Aveva la sensazione di avere qualcosa di strano in bocca, non riusciva più a tenerla chiusa, e in questo caso non erano di certo le ferite inflitte dai vietcong: nessuno dei nemici lo aveva morso in bocca e, tantomeno, lui era riuscito a usare i suoi canini sugli avversari.
Provò a ignorare anche questo fastidio. Nell’elenco delle cose da fare segnò anche il dentista. Subito dopo, però, avvertì un dolore simile anche nelle zampe, in tutte e quattro. Gli pareva che le ossa stessero uscendo dai polpastrelli. In un primo momento diede la colpa agli incubi che stavano scorrazzando nella sua mente terrorizzata. Poi si decise a dare un’occhiata. Rimpianse subito di averlo fatto perché il terrore si moltiplicò all’infinito e invase ogni spazio disponibile. I peli gli si rizzarono come aculei sulla schiena. Si cagò addosso. Non riusciva più a chiudere la bocca e, soprattutto, non riusciva più a credere a quello che i suoi occhi stavano riportando indietro al cervello. Saltò come un canguro posseduto, dentro la vecchia casa, tra i mobili brutalizzati dai vandali e dal tempo. Saltò nella polvere e nelle trappole di vetri rotti. Il suo cuore pareva volesse uscire dal petto, ma lui non riusciva a smettere di saltare. La paura era come una molla e non dipendeva più dalla sua volontà. Dopo una mezzora di salti, acrobazie e colpi sugli spigoli, si rese conto che c’era qualcos’altro oltre alla pazzia evocata dall’orrore. Si fermò sotto il cono di luce proiettato dalla luna e guardò il suo corpo con più attenzione. C’erano le ferite che ancora sanguinavano ma non solo. Il suo corpo era diverso, le unghie erano più grandi, molto più grandi e robuste. Le zampe stesse erano più grosse e massicce. E guardando sotto i baffi vide anche che i canini erano cresciuti tanto da sporgere di diversi centimetri al di fuori della sua bocca. Inoltre i messaggi che arrivavano dal suo organismo, sia dal centro sia dalle periferie più estreme, erano inequivocabilmente diversi rispetto al solito. Si sentiva più forte, molto più forte e anche più grande, molto più grande. La stanchezza era andata via, la fame pure. Decise di uscire allo scoperto. Varcò la soglia della porta senza più fare caso a chi o cosa ci fosse nei paraggi. S’inoltrò nella notte, finalmente senza paura.
Il primo essere vivente che incrociò fu un topo, il quale scappò subito davanti alla sua ombra. Questo però non lo impressionò più di tanto in quanto il roditore sarebbe scappato via comunque alla vista di un gatto, a prescindere dalle sue dimensioni. Quindi andò avanti per testare su un soggetto più attendibile il suo nuovo stato. Notò subito che i suoi sensi erano ancora più precisi e potenti di prima, e un piccione che sonnecchiava nascosto dietro un vaso di fiori in un balcone fu il primo a sperimentare l’upgrade di Alfonso.
Si leccò i baffi, con qualche difficoltà imprevista data la mole dei nuovi canini, e proseguì con passo felpato ma deciso. Si sentiva il re di quella foresta di cemento e spazzatura.
Incrociò un cane, un meticcio di taglia media. Inizialmente questi abbaiò al suo indirizzo come se si trattasse di un gatto qualsiasi. Dopo un paio di secondi di indecisione però il cane scappò via con la coda tra le gambe.
Alfonso si ritenne soddisfatto; il test era già attendibile, ora poteva passare all’azione. Il suo intento era ritornare da Ho Chi Minh e regolare i conti con i vietcong. Non poteva lasciar correre, il suo onore era stato stuprato.
Arrivò nei pressi dell’Everest. Si guardò intorno. Percepì la potenza del suo nuovo corredo di muscoli e li sfruttò subito. Non provò neanche a scalare la montagna, la saltò con un solo balzo e si ritrovò subito nell’accampamento nemico. Cercò i tre energumeni, vagando nel campo senza particolari accorgimenti. Non aveva più paura di nessuno.
Trovò un paio di gatti addormentati, ma non erano loro, quindi decise di non massacrarli. Per il momento.
Si spinse sempre più all’interno delle linee nemiche e finalmente scovò il giaciglio dei tre stupratori. Li colse nel sonno senza dare loro il tempo di capire cosa stesse accadendo. Uno perì subito sotto i colpi degli artigli di Alfonso. Il secondo accennò una reazione e provò a colpirlo al volto. Finì con la testa staccata di netto da un unico morso. Il terzo, approfittando della confusione, si dileguò nel buio.
Alfonso decise di lasciarlo andare, anche se era sicuro che sarebbe riuscito a ritrovarlo in pochi secondi. Si sentiva forte e onnipotente e poteva permettersi anche un gesto di clemenza.
Intanto si saziò con tutta la dispensa di crocchette del nemico. Ruttò e ritornò nel suo territorio, al di là della montagna. Decise che la vecchia casa sarebbe diventata da quel momento la sua dimora. Il tempo del suo regno era cominciato.
Si concesse il meritato riposo. Stavolta senza incubi né dolori.
Il mattino seguente si svegliò presto, come era sua abitudine. Si accorse, con grande stupore e con una nuova ondata di terrore, che tutto era tornato come prima. Niente più zanne né artigli invincibili. Era il solito gatto comune, né troppo grande né troppo piccolo. Un gatto medio che non faceva paura a nessuno. Non riusciva a capire. Iniziò a dubitare della sua stabilità mentale. Non era più così sicuro che tutto quello che aveva vissuto, o creduto di vivere, la notte precedente fosse reale.
Trascorse la giornata in modo riservato, senza dare troppo nell’occhio e pensò a lungo alle stranezze del mondo. Poi, però, arrivò nuovamente la notte e con essa la forza e la potenza del re. I sogni e i dubbi furono spazzati via in un colpo solo. Alfonso si riappropriò delle sue capacità mentali e del suo territorio e capì che doveva solo adeguarsi al nuovo fuso orario.
Cacciò sino alle prime luci dell’alba. Si vendicò dei torti subiti dagli altri animali a due o più zampe e ritornò a casa soddisfatto.
Mentre era immerso in un gradevole sogno pieno di gattine disponibili e intere tavolate ricolme di leccornie, un forte rumore lo fece destare di soprassalto. Gli umani stavano buttando giù la vecchia casa, la sua reggia.
Un enorme macchina di acciaio, rumorosa e maleodorante afferrava con un gigantesco braccio le mura del castello e le sbriciolava come se niente fosse.
Alfonso scappò via, abbandonò il regno in fretta e furia, senza dare disposizioni alla corte e alla servitù. La notte era ancora lontana e non poteva affrontare in pieno giorno un mostro del genere.
Provò a saltare sulle macerie ma si trovò davanti un altro mostro di metallo che ruggiva verso di lui. Allora deviò la sua corsa verso una finestra che ancora stava tristemente in piedi. Saltò nel mezzo, evitando fortunosamente i frammenti di vetro che ancora penzolavano dal suo scheletro. Atterrò sulla strada in mezzo alla carreggiata. Lontano dai mostri famelici e dai loro deretani che scaricavano fumo nero.
Diede un’ultima occhiata al suo castello che stava sprofondando in un mare di polvere, ma era l’ora di punta e non fece in tempo a rivolgerli un ultimo pensiero, perché un auto lanciata sull’asfalto da un umano distratto non si accorse di lui e lo prese in pieno. Di lui non rimase altro che una poltiglia di pelo e sangue. L’automobilista distratto non si accorse neanche di averlo messo sotto. Dopo di lui altre auto immerse nei propri pensieri fecero scempio di quello che restava.
Le notti del gatto mannaro erano finite.


In memoria di Sandrokan, Sandro per gli amici.

R.I.P.


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