venerdì 5 settembre 2014

L'Invasione degli Ultraporchi


L'Invasione degli Ultraporchi


“C’è chi ha 4, 5, 20 culi 
da suddividere nelle varie poltrone
e c’è chi di culo ne ha uno solo, 
ma per esso 
non riesce a trovare neanche uno sgabello.”



La cittadina di Master Easter, era un luogo come tanti altri, né più né meno. I cittadini comuni per poter ottenere un umile posto di lavoro, dovevano avere una tessera di partito o uno zio vescovo o, al limite, un deretano consenziente. Funzionava così e nessuno se ne lagnava. Di solito la tessera veniva offerta in regalo ai ragazzi in occasione del raggiungimento della maggiore età. In qualche caso, alcuni padrini particolarmente intraprendenti, ne facevano dono anche ai bambini appena battezzati.
Tra le scarse attrattive della città c’erano il parco Sus, con il suo bel laghetto nel mezzo che, però, con il passare degli anni si era ridotto a poco più di una pozzanghera, e la fabbrica di sedie e poltrone Ultra di proprietà dei signori Bennel e Hill. La premiata ditta produceva poltrone pregiate per i consigli di amministrazione di tutto il paese, ma era nota anche per la grande bellezza dell’edificio della direzione in stile art nouveau. La fabbrica attirava un buon numero di visitatori, turisti e politici, durante tutto l’anno. Al suo interno si organizzavano visite guidate in diverse lingue, più volte al giorno, sino a tarda sera.
Oltre a questo la città non offriva molto altro; c’erano un paio di pub, due o tre bar malfamati e una decina tra ristoranti, pizzerie e trattorie di qualità altalenante. Al crepuscolo, poi, vigeva la consuetudine di rintanarsi in casa, a prescindere dal clima ed eventuali festività e ricorrenze. Non c’era alcuna ordinanza delle autorità da rispettare né vi erano particolari problemi inerenti al crimine. Semplicemente era una vecchia abitudine del posto.
Quasi sempre restavano solo i gruppi di turisti a girovagare senza meta sotto la fioca luce dei lampioni, ma qualche volta anche i lampioni si ritiravano.
La vita quotidiana proseguiva sempre allo stesso modo, con il suo ritmo lento e le stesse cose che si succedevano con estrema precisione secondo la sequenza dettata dalle lancette dell’orologio. Praticamente due palle gigantesche.

Ma l’otto ottobre del 1956 avvenne qualcosa di inspiegabile che sconvolse tutta la comunità. Da quel giorno, infatti, la cittadina di Master Easter non fu più la stessa.
No, non cambiò nome. Ma i suoi abitanti non si ripresero più.

Il signor Bennel chiamò il suo socio, il signor Hill, con tono perentorio lo convinse a seguirlo sino al palazzo del comune. Durante al tragitto si limitava a qualche grugnito e a gesti nervosi di difficile interpretazione. Ogni tentativo di ottenere spiegazioni da parte del signor Hill fu vano.
Raggiunsero il palazzo.
Salirono le scale di marmo velocemente. 
Molto velocemente.
Bennel avanti e Hill, ansimante e preoccupato, dietro.
Davanti alla porta dell’ufficio del sindaco Bennel non esitò un solo istante e irruppe con veemenza, senza bussare.
Dentro la stanza c’erano riuniti il sindaco Finney, il vescovo Siegel, la preside Driscoll e il capo della polizia Mainwaring.
L’atmosfera era già abbastanza calda prima dell’ingresso della ditta Bennel & Hill. Le informazioni si rincorrevano senza sosta. Il telefono trillava in continuazione. Nuvole di fumo si levavano alte dalla scrivania dove stava seduto il sindaco con la fronte madida di sudore e il nodo della cravatta tra le dita.
La città era piombata nel panico. O il panico era piombato nella città?

Il caso era alquanto intricato: alle prime luci dell’alba la donna delle pulizie aveva trovato un’enorme baccello vuoto sotto la poltrona di Luc Cordens de Montezuma, presidente dell’ente nazionale per la tutela della qualità della pelle da concia, nonché amministratore delegato del fondo monetario nazionale, nonché magnifico rettore dell’università di Master Easter, eccetera eccetera.
Il ritrovamento in sé, per quanto insolito, non destò particolare allarme se non fosse che il dottor Montezuma aveva iniziato a comportarsi in modo strano. Si era seduto alla scrivania senza fare caso al baccello maleodorante sotto il suo sedere e, soprattutto, senza richiedere il trattamento Lewinsky alla sua segretaria, come avveniva tutte le mattine. Non solo: le aveva concesso la giornata di libertà nonostante il giorno feriale, cosa mai successa in decenni di servizio.
Lui, che era un tipo schematico e abitudinario, quella mattina aveva rinunciato anche alla colazione e alla visione dell’agenda con gli appuntamenti. 
La segretaria venne ritrovata sotto shock in un vicolo adiacente alla villa del presidente.
Ma non era finita.
Dopo il presidente, anche altri cittadini vennero colpiti da questi strani fenomeni. Prima il manager dell’azienda sanitaria, poi il notaio, alcuni commercialisti e una decina di avvocati e a seguire altre centinaia di persone.
In un primo tempo erano le mogli, fidanzate o figlie a ritrovare i baccelli vuoti e puzzolenti e a notare i disturbi di comportamento nei loro congiunti. Ma in breve anche le fanciulle della città iniziarono a manifestare gli stessi sintomi.
La strana infezione correva veloce, invadeva e infestava ogni angolo della città. I baccelli erano ovunque; la sera erano pieni, grassi, pesanti e pulsanti di vita, e durante la notte si liberavano del loro contenuto.
Ad ogni baccello vuoto corrispondeva un’alterazione del comportamento in un essere umano.
E ad ogni baccello vuoto corrispondeva un essere umano che non si meravigliava più della presenza dei baccelli stessi.
I soggetti colpiti parevano non essere più in grado di provare emozioni né sentimenti di alcun genere. Davano l’impressione di essere diventati freddi e apatici per senza manifestarlo apertamente. Solo i parenti più prossimi riuscivano a cogliere le piccole differenze, quasi impercettibili per gli estranei.

Mentre avveniva tutto questo, in rapida sequenza: i baccelli, gli uomini mutanti, malati o posseduti (non era ben chiaro) e qualcun altro in preda a crisi isteriche e al terrore. Mentre la città era sotto assedio da parte di giganteschi vegetali di dubbia provenienza, il sindaco Finney e l’intellighenzia della città stavano ancora studiando le carte e vagliando le testimonianze.
Non sapevano che fare ma, d’altronde, non capita tutti i giorni di essere invasi da degli strani fagioloni e non tutti riescono ad adattarsi velocemente alle novità.
Ma, seppur lentamente e dopo aver perso tre quarti degli abitanti della città, la riunione portò i primi risultati. Era tarda sera, ma alla fine erano arrivati a una conclusione…
Non si doveva dormire per evitare il contagio.
Il sindaco firmò l’ordinanza che vietava in modo categorico il sonno nella città. Pena l’arresto per attentato alla sicurezza nazionale.
Provò a chiamare il capo dei vigili urbani Wanger per far affliggere i manifesti e iniziare i controlli casa per casa, ma non lo trovò. Allora si rivolse al capo della polizia che era al suo fianco, ma questi provò a chiamare la centrale senza successo.

Non si doveva dormire.

Finney decise di stamparsi da sé i volantini e di affiggerli di persona nelle piazze più importanti. Gli altri lo assecondarono.

Non si deve dormire.

Preparò i fogli velocemente e se li mise sotto braccio, non senza una certa soddisfazione. Gli altri erano pronti a seguirlo. Fuori, al buio.

Non si deve dormire.

I partecipanti alla riunione, stanchi, affamati e assonnati si strinsero le mani con vigore e con altrettanta energia si diedero delle robuste pacche sulle spalle. 
Quando bussarono alla porta.
Il sindaco posò i volantini sulla scrivania, fece cenno agli altri di stare fermi e  zitti e al capo della polizia di seguirlo con l’arma in pugno.
Bussarono nuovamente.
Nell’ufficio regnava il silenzio assoluto.
Bussarono ancora.
Finney e Mainwaring con la sua pistola si avvicinarono alla porta. Il sindaco strinse la maniglia e, dopo uno sguardo d’intesa con il poliziotto, l’aprì di scatto.
La luce del corridoio era spenta.
Sembrava non ci fosse nessuno.
Il sindaco allungò una mano verso l’interruttore. E luce fu.
Davanti a sé, davanti a loro, si stagliava un’enorme catasta di baccelli verdastri palpitanti, umidi e puzzolenti.
I due ritornarono sui propri passi e si chiusero la porta alle spalle.
Il municipio era caduto.
La città era caduta.

Si misero a sedere sulle poltrone della premiata ditta Bennel & Hill. Il sindaco Finney poggiò i gomiti sulla scrivania e scrutò con occhio indagatore i volti dei presenti. Non vide né paura né tensione, solo stanchezza e…sonnolenza.

Dopo alcune ore di stoica resistenza, alcune palpebre iniziarono a calare.
Prima il signor Hill, poi la preside, subito dopo il vescovo, seguito a ruota da Mainwaring.
Il sindaco diede un sonoro colpo sulla scrivania per destare i suoi illustri ospiti.
Uno di loro, il signor Bennel, che tra l’altro era l’unico a non sembrare tentato dalle lusinghe di Morfeo, manifestò i suoi dubbi sulla reale utilità della privazione del sonno. Il sindaco lo guardò di sottecchi; stava iniziando a dubitare sulla natura del suo illustre concittadino, ma non disse nulla. Diede solo un calcetto a Mainwaring che gli stava seduto accanto.
Il poliziotto non capì, ma il sindaco non insistette e proseguì a scrutare con diffidenza il re delle Ultra poltrone.
Subito dopo subentrò un altro problema: il vescovo e il signor Hill si schierarono con il Bennel e proposero di fare dei turni di guardia mentre gli altri avrebbero schiacciato un pisolino ristoratore.
Finney si oppose con veemenza e cercò di far valere la sua autorità.
Il vescovo si mise a pregare in ginocchio e approfittò della posizione per sbirciare sotto la gonna della preside.
Infine la questione venne messa ai voti e la proposta di Bennel venne accettata con sommo disappunto del sindaco. Anche il capo della polizia votò per il sonno.
Finney apostrofò con male parole i suoi compagni di sventura, vescovo compreso, ma dovette cedere alla decisione della maggioranza.
Nel giro di pochi secondi si addormentarono tutti, tranne il sindaco e il Bennel. Il vescovo Siegel approfittò dell’occasione per allungare una mano sotto la gonna della bella preside addormentata, e il signor Hill, invece, si concedette la licenza di un sonoro peto per scaricare la tensione.
Finney e Bennel rimasero immobili e in silenzio, uno davanti all’altro. Stavano iniziando a odiarsi, ma non ebbero il tempo di passare agli insulti o alle mani perché bussarono nuovamente alla porta.
I dormienti rimasero tali. 
Il sindaco e l’Ultra poltronaio si alzarono e andarono insieme alla porta. Attesero un istante. Poi Finney aprì.
Stavolta la luce c’era. I baccelli pure, ma erano tutti schiusi.

Non si doveva dormire.

L’odore era forte e nauseabondo, ma loro non fecero in tempo a provare bene l’ebrezza del disgusto che un’orda di decine, forse centinaia, di maiali inferociti li travolse con una carica di una violenta inaudita. Forse correvano per paura o, forse, avevano proprio l’intenzione di attaccare e uccidere. Fatto sta che gli uomini vennero velocemente sopraffatti da quintali di carne rosa e da una moltitudine di bocche sbavanti e denti affilati. In terra rimase solo la fascia tricolore.
Gli altri perirono nel sonno.

Gli ultraporci stavolta non hanno vinto.


Nota dell’autore: 

Il titolo in origine doveva essere “L’invasione degli Ultraporci” ma qualcun altro ci aveva già pensato prima.



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