sabato 15 dicembre 2012

Antrum




Si stava facendo tardi. Thomas guardava nervosamente l’orologio, scostando di continuo il polsino della camicia, sino a quando si rese conto di averlo macchiato con il cioccolato della torta e, a quel punto, decise di rivolgersi all’orologio appeso al muro al centro della sala. Gli altri non avevano il suo stesso problema e continuavano a bere, ridere e scherzare. Qualcuno si appartò in un’altra stanza, approfittando della confusione e della musica ad alto volume che copriva i rumori di altro genere. Lui, intanto, cercava di apparire affabile, nonostante il tempo che correva veloce e la preoccupazione che cresceva dentro. Una ragazza che non aveva mai visto gli cinse le spalle con un braccio e gli offrì una boccata del suo alito all’aroma di vodka. Thomas sorrise, cercando di fingere di gradire l’offerta, ma le lancette lassù non gli davano tregua.
Era tardi, terribilmente tardi.
La ragazza svanì nel fiume di teste scompigliate e bicchieri tintinnanti e lui si ritrovò a seguire con lo sguardo un bel paio di jeans, ma era troppo tardi e gli occhi ritornarono al loro posto.
Decise di dileguarsi, approfittando della confusione e tentò di avvicinarsi all’uscita. Nel breve e faticoso tragitto incontrò uno spruzzo di birra proveniente da una bocca con il rossetto viola, una gomitata al costato destro e un tacco a spillo nel polpaccio della gamba sinistra. Non se ne preoccupò e continuò a sorridere imperterrito, verso la via di fuga, verso l’aria fresca della notte.
Poi un paio di mani lo afferrarono per le braccia e cercarono di convincerlo a rientrare nella bolgia, esponendo una serie di validi e allettanti argomenti. Cercarono di fargli eseguire un’inversione a u, e lui, in un primo momento, si lasciò trascinare, poi si liberò dalla morsa con qualche scusa e il miglior sorriso che aveva in catalogo. Riuscì a evitare altri ostacoli e, soprattutto, gli sguardi dei suoi amici, i quali erano immersi in altre faccende e non si accorsero della sua fuga. Raggiunse la porta. Si voltò per assicurarsi che nessuno lo stesse osservando, ma non vide altri pericoli né problemi insormontabili, oltre a una disdicevole traccia di rossetto sul colletto della camicia.
Sospirò.
Un’ultima occhiata all’orologio, oltre la macchia di cioccolato, e varcò la soglia.
Richiuse la porta alle sue spalle e il rumore della festa si attenuò sensibilmente e sfumò nei suoni della strada.
Le auto sfrecciavano veloci sull’asfalto umido di pioggia, lasciando una scia rossa sul manto nero del viale.
Thomas si guardò intorno e, non vedendo altri pedoni nelle vicinanze, si sistemò i capelli con una mano e cercò di ripulire il colletto della camicia con un po’ di saliva.
Solo poche decine di metri e una dozzina di scalini lo separavano dalla sua auto e dalla risoluzione dei suoi problemi.
Si riabbottonò la giacca e discese i primi gradini con decisione. Al quarto si accese una sigaretta e riprese la marcia ma i suoi piedi, inaspettatamente, non trovarono il quinto scalino. Avvertì una spiacevole sensazione di vuoto sotto di sé. La sigaretta abbandonò la comoda sistemazione tra le sue labbra e un vento gelido proveniente dal basso gli sollevò i lembi inferiori della giacca sotto le braccia, come se fossero le ali di una falena.
Thomas non fece in tempo a capire cosa stesse accadendo che si ritrovò a precipitare nel buio. Urlò con quanto fiato aveva in corpo, ma il suono che scaturì dalle sue corde vocali era flebile, ovattato, come se provenisse dal corpo di qualcun altro, molto distante da lui e dai suoi timpani.
Durante la caduta incontrò alcuni ostacoli; sentì una dolorosa fitta a un ginocchio come se avesse battuto su uno spigolo appuntito e, subito dopo, la sua nuca raschiò contro una superficie ruvida e dura.
Il buio non gli permetteva di vedere niente, ma lui aveva la sensazione di trovarsi dentro uno stretto buco scavato nella roccia, una sorta di pozzo.
Mentre cercava di capire, e con le mani provava a trovare qualche appiglio, la sua corsa terminò improvvisamente sulla terra.
L’atterraggio non fu affatto piacevole per la sua schiena, ma era sempre meglio del volo senza fine che si stava prospettando. 
Rimase supino per qualche istante.
Cercò di saziare la sua fame d’aria e di capire se avesse riportato qualche danno grave. Mandò le mani in avanscoperta a tastare il resto del corpo e provò a spostare con cautela i piedi. Appena il livello di ossigeno giunse a un valore accettabile e i battiti cardiaci ripresero un ritmo quasi normale, si decise ad aprire gli occhi e a guardarsi intorno.
Il buco stretto e irregolare dal quale era precipitato si trovava proprio sopra la sua testa, ma intorno, lo spazio che s’intuiva nell’oscurità, era ampio.
Il suolo su cui era adagiato era ricoperto da un leggero strato di terriccio umido, sotto il quale si avvertiva la presenza di dura roccia.
Thomas fece un primo tentativo di alzarsi, ma dovette desistere in quanto il dolore alla schiena era particolarmente feroce.
Riprese fiato e riprovò. I dolori al torace erano forti, ma non gli pareva di aver subito danni alla colonna vertebrale perché riusciva a muoversi senza problemi. Probabilmente aveva solo qualche costola rotta. La nuca bruciava come se avesse sopra dei tizzoni ardenti. Dopo qualche istante d’indecisione e timore provò a toccare il punto dove il fuoco era più intenso e la mano riportò qualche traccia di sangue.
Infine riuscì a mettersi seduto. Dolorante ma vivo. 
Una volta ristabilita la calma nel suo organismo, il suo primo pensiero fu di accendersi una sigaretta, quella che aveva desiderato all’uscita dalla casa e che il volo nel pozzo gli aveva fatto perdere.
Fece un paio di tirate lunghe e intense e poi diede un’occhiata all’orologio. Con una certa sorpresa notò che il vetro era sparito, se non per un piccolo  frammento ancorato nella parte inferiore vicino al 6, ma le lancette continuavano a muoversi stoicamente. Ed era tardi, maledettamente tardi.
L’aria umida e fredda non aiutava la formazione di pensieri utili alla risoluzione del nuovo problema e i dolori che lo tormentavano rendevano ancora più intricata la situazione.
Lanciò il mozzicone di sigaretta con un rapido movimento dell’indice e del pollice e seguì con lo sguardo la scia rossa, alla ricerca di una fonte d’ispirazione. Ma non trovò nulla.
Con il passare del tempo la vista si abituò alla semi oscurità che lo assediava e quindi decise di alzarsi. Con o senza dolore. Non aveva altra scelta. 
L’acquisizione della posizione eretta fu meno faticosa di quanto avesse previsto e questo fatto riaccese in lui il lumicino della speranza.
Cercò di liberarsi dal terriccio e dal fango e provò a camminare, nonostante il dolore, il buio e l’ignoto che lo circondava.
Un’occhiata al buco da dov’era precipitato, giusto per escluderlo definitivamente dall’elenco delle probabili vie di fuga, e provò ad andare avanti, alla ricerca di qualche filo d’aria da seguire o qualche tenue luminosità. 
Per quello che riusciva a vedere, o a intuire, la volta era distante non meno di due-tre metri dalla sua testa, anche se in alcuni punti era più bassa e presentava diverse irregolarità. Non gli sembrava opera dell’uomo, doveva essere, molto probabilmente, una grotta naturale; una grande camera d’aria come ce ne sono tante sotto le nostre città e nelle quali non è così difficile che queste sprofondino.
Il suolo era ricoperto di terra, pietre e fanghiglia. Non era particolarmente difficoltoso camminarci, ma la mancanza d’impronte e tracce umane non prometteva niente di buono. 
L’unica speranza l’aveva affidata alla constatazione che il buio non era assoluto e quindi ci doveva pur essere uno sbocco, una via d’uscita, uno spiraglio. Un’altra, magra, consolazione proveniva dal fatto che l’orologio aveva smesso di tormentarlo.
Si allontanò dal buco sulla sua testa anche per accertarsi che le quasi impercettibili particelle di luce non provenissero tutte da lassù. Non poteva essere così. Ci doveva essere un’altra via d’uscita.
Provò a raggiungere una parete per seguirla con una mano e anche per usarla come appoggio, qualora il dolore intensificasse la sua azione.
L’orologio, intanto, non visto, approfittò dell’oscurità e riprese la sua corsa inesorabile, senza alcuna pietà.
La parete era più distante di quanto avesse immaginato, ma riuscì a raggiungerla ugualmente e vi si appoggiò con tutte e due le mani, un po’ per riposarsi e riprendere fiato e un po’ per tastarne la consistenza e per verificare l’eventuale presenza d’interventi umani.
Dopo qualche istante dedicato allo studio della roccia e agli scambi gassosi del suo apparato respiratorio riprese il cammino.
Si trascinò con l’aiuto dei piedi, delle mani e della voglia di vivere.
In alcuni momenti il dolore al torace era insopportabile e l’umido, oltretutto, infieriva con una cattiveria quasi umana.  Ogni tanto anche il ginocchio si faceva sentire, ma in modo meno violento rispetto al costato. Quando, invece, le fitte si attenuavano riusciva a percorrere più velocemente il suo sentiero immaginario e questo gettava legna nel fuoco della speranza e incoraggiava gli occhi a procedere nel loro sforzo immane.
Non c’erano tracce di civiltà li sotto. Nessun segno del passaggio di altri esseri umani, né recente né passato. Solo roccia, terra, erbacce, muffe e qualche insetto che correva veloce appena riusciva ad avvertire la presenza delle mani di Thomas.
Si abbottonò la giacca e sollevò il bavero per proteggere il collo dal freddo e proseguì nel buio e nel silenzio quasi assoluto. Solo il crepitio delle pietre sotto le suole delle sue scarpe, il suo respiro e qualche goccia d’acqua echeggiavano nell’immenso vuoto della grotta.
Di tanto in tanto lo sconforto e la stanchezza prendevano il sopravvento e lui era costretto a fermarsi per riposare. Il sudore gelava nella sua fronte a causa del forte tasso d’umidità e della temperatura decisamente bassa. Ma dopo una breve pausa il desiderio di abbandonare la grotta e la coltre di tenebre che vi dimorava aveva ancora la meglio sull’affaticamento muscolare e sulla disperazione.
Ogni ripresa della marcia, però, segnava un ulteriore rallentamento dell’andatura. Alcune parti del suo corpo, qualche muscolo e qualche articolazione, stavano cedendo al tentativo di corruzione da parte del nemico e non rispondevano con la stessa precisione e decisione di prima.
I passi si fecero pesanti e faticosi e le pause più lunghe e con scarsi benefici sulle prestazioni nella fase della ripresa.
I pensieri andavano molto più velocemente delle sue gambe ma, spesso, s’ingarbugliavano in una matassa senza sbocchi.
L’umidità, con il passare del tempo, pareva sempre più elevata e aggrediva la pelle, la carne e le ossa con ferocia sempre maggiore, approfittando della lentezza dei movimenti e dell’indebolimento delle barriere difensive.
Poi, improvvisamente, le palpebre gonfie si riaprirono e lasciarono filtrare un bagliore inaspettato.
Thomas raccolse quel poco che restava delle sue forze e si precipitò verso la luce e qualsiasi cosa essa rappresentasse. 
Si trascinò in avanti con fatica, nonostante il dolore e il serbatoio rimasto a secco. E riuscì a prendere una buona andatura, abbastanza simile a una corsa leggera, malgrado i movimenti scoordinati e l’incremento dell’acido lattico nei suoi muscoli.
La luce, intanto, aumentava d’intensità e cresceva anche il suo raggio d’azione, disperdendosi tra le particelle di polvere e le goccioline che saltellavano nell’aria.
A un certo punto dovette chiudere gli occhi perché l’intensità della luce era tale da non essere tollerabile per i suoi occhi sopraffatti dalle tenebre. Si fermò per cercare di riprendere confidenza con la visione degli oggetti e del mondo. Armeggiò con la ghiera della messa a fuoco e dopo qualche doloroso tentativo riuscì a vedere quello che gli stava davanti.
Vacillò un istante per l’incredibile visione che si stava formando nel suo campo visivo. Si strofinò gli occhi con le nocche delle dita per assicurarsi di trovarsi fuori dai sogni e pensieri e quando li riaprì, essi confermarono che si trattava di una porta. Una porta normale, moderna, come quelle di un qualsiasi appartamento. Solo che la sua ubicazione non era molto comune. Nel bel mezzo di una grotta, nelle viscere della terra, o giù di li.
La luce filtrava da sotto ed era molto intensa, forse troppo.
Thomas impugnò la maniglia, ricaricò d’aria i suoi polmoni e provò ad aprire. 
La luce inondò ogni cosa, ma non era sola, con essa arrivarono anche i suoni, gli odori e una piccola folla impegnata in un rumoroso chiacchiericcio condito da alcol, fumo e altre sostanze.
- Ehi, Thomas dove cazzo ti eri cacciato? 
- Perché sei in queste condizioni? Cosa ti è successo?
Dalle labbra di Thomas non uscì alcun suono. Riuscì solo a dare un’occhiata all’orologio sul muro, al centro della sala.
Poi le teste accaldate che gli stavano intorno cominciarono a ruotare vorticosamente con un frastuono infernale e, infine, sparirono nel nulla e lasciarono il posto al silenzio e al buio.


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