lunedì 14 febbraio 2011

E poi c'è Poe...

Signore e Signori Edgar Allan Poe:



























Costui mi ha accompagnato dall'adolescenza sino a ora. Ho collezionato le sue opere in svariate edizioni e ancora adesso le rileggo con immenso piacere, di notte, prima degli incubi della fase rem. C'è da dire che non sempre le traduzioni rendono giustizia alle atmosfere inquietanti e oscure dello scrittore americano, ma quando ci riescono il contagio è assicurato e non ci si libera più di lui e delle sue parole.

http://it.wikipedia.org/wiki/Edgar_Allan_Poe

http://www.fortunecity.com/rivendell/curse/35/poe.htm







Berenice



La miseria è molteplice. E la sventura sulla terra è multiforme.
Essa difatti domina il largo orizzonte, simile all'arcobaleno e, come quello, è di vario colore, e consente alle diverse tinte, pur essendo tra loro fuse, d'essere l'una dall'altra distinta. Come l'arcobaleno, essa domina il largo orizzonte! E così, da un'immagine di bellezza, io avrei tratto il paragone con una tale bruttura? Dal simbolo della pace io avrei tratto una similitudine col dolore? Eppure, allo stesso modo che, nell'etica, il male è considerato come una conseguenza del bene, nella realtà delle cose è soltanto dalla gioia che nasce il dolore. O è la memoria della felicità trascorsa a formare l'angoscia del presente, ovvero sono le attuali agonie a essere originate da estasi, le quali avrebbero potuto essere.
Il mio nome di battesimo è Egeus; quello di famiglia lasciate ch'io non lo scriva. Non esiste un castello più ricco di anni e di gloria della malinconica e antica dimora dei miei antenati. Essi sono sempre passati per una razza di visionari ed è indubitabile che in non pochi e rilevanti particolari, come ad esempio nel carattere della casa, negli affreschi del salone principale, nei parati delle camere da letto, nei lavori di cesello di alcuni sostegni della sala d'armi, ma soprattutto nella galleria di quadri antichi e nella biblioteca e da ultimo nella natura degli specialissimi oggetti contenuti in questa, vi sia molto più di quanto occorra a giustificare una simile reputazione.
Le memorie dei miei primi anni d'infanzia sono intimamente collegate a quella sala e a quei libri dei quali, peraltro, non avverrà ch'io dica più nulla. E' là che morì mia madre, è là che sono nato io. E nondimeno è del tutto ozioso affermare ch'io non abbia già vissuta un'altra vita, che l'anima mia non abbia avuta nessuna esistenza anteriore! Credete che non sia così? Ma non è luogo questo di discussioni per una simile materia: a me basta che sia convinto io; non tento affatto di convincere gli altri. Vi sono tuttavia alcune memorie d'aeree forme, di occhi che dicono la loro spiritualità, e melodiosi e mesti suoni ancora... memorie che non si lasciano cancellare, ombre vaghe, mutevoli, sfumate e non mai ferme un solo istante, come quell'ombra della quale non sarà concesso ch'io mi liberi fintanto che nel mio cervello sarà luce.
Io sono nato in quella camera. Nell'atto di ridestarmi dalla lunga notte di quel che sembrava - ma non era - la non esistenza, e nel trovarmi, d'un subito, in un magico paese, in un fantastico maniero, negli stravaganti dominii del pensiero e dell'erudizione monastica, non dovrebbe meravigliare ch'io mi sia guardato all'intorno con occhio vivido e impaurito... e che poi abbia logorata sui libri la mia infanzia e nei sogni la mia giovinezza... ma è singolare, invece, ch'io mi trovassi ancora nella dimora dei miei padri negli anni della virilità... ed è singolare ancora e, anzi, straordinario, come man mano le sorgenti della mia vita furono arrestate e spente dall'inazione, come una completa inversione nei miei più ordinari pensieri intervenne a confonderli... le realtà del mondo esterno m'impressionavano, infatti, soltanto come visioni e nulla più che visioni, nel mentre che le pazze fantasie che abitavano, invece, la regione dei sogni, erano divenute per me molto più che non la materia della mia esistenza quotidiana, esse erano divenute la mia esistenza medesima, in assoluto.
Berenice e io eravamo cugini, ed eravamo cresciuti assieme nelle sale del mio castello avito. Tuttavia crescemmo assai diversi l'uno dall'altra. Io ero di salute cagionevole e d'umore sempre melanconico, e lei, invece, agile, aggraziata e nel pieno rigoglìo della salute. A lei le corse pazze giù per la collina, a me gli studi severi, nel chiostro. Io non vivevo che nell'intimo del mio cuore, consacrando l'anima mia e il mio corpo alla più estenuante meditazione, e lei, per contro, errava spensierata per la vita, senza preoccuparsi se mai calasse qualche ombra sul suo cammino, ovvero se volassero via silenziose le ore dalle nere ali del corvo.
Berenice! Io invoco il suo nome, Berenice! E dalle grigie rovine della memoria ecco risvegliarsi, a quel suono, mille tumultuanti immagini! O meravigliosa e pur fantasiosa bellezza! O sìlfide gentile fra i roveti d'Arnheim! O Najade tra le sue acque! Ed oltre... oltre non c'è che orrore e mistero e, insomma, una storia che è meglio non raccontare. Un morbo, un fatale morbo s'abbatté su di lei come il vento infuocato del deserto, e mentre io la stavo ancor riguardando, scorreva su di lei il sinistro spirito della sua trasformazione e invadeva l'essere suo e le sue abitudini, il suo carattere, e perfino alterava, nel più sottile e orribile dei modi, l'identità della sua persona. Venne, ahimè, il Distruttore! Venne e tornò via! E la vittima? Dov'era la vittima?
Io non la conobbi più, voglio dire che non la conobbi più come Berenice.
Tra i numerosi mali che seguirono quel primo e fatale, il quale tanto operò e così radicalmente a mutare il fisico e lo spirito di mia cugina, io ricordo che il più penoso ed ostinato fu una sorta di epilessìa che terminava sovente in uno stato di transe, in tutto simile ad una morte apparente e dal quale accadeva, talvolta, ch'ella si riavesse d'un subito, con uno spasmodico sussulto.
Nello stesso tempo il mio male - quel male di cui, come ho già detto, non specificherò il nome e la natura - cresceva rapidamente e finì con l'assumere il carattere d'una monomanìa di nuova e straordinaria forma, la quale, d'ora in ora e di minuto in minuto, acquistava novello impulso, rinvigorendo, in me, la più misteriosa delle influenze. Tale monomanìa, s'io debbo definirla con questa espressione, consisteva in una morbosa irritabilità di quelle facoltà psichiche che la scienza ha convenuto di definire facoltà d'attenzione. Non sono sicuro d'esser compreso, a questo punto, ma temo davvero di essere nella più assoluta impossibilità di fornire al lettore medio un'idea esatta di questa sorta di nervoso acuirsi dell'interesse in virtù del quale, la mia facoltà di riflettere - per non usare un linguaggio tecnico - si fissava e si sprofondava nella contemplazione dei più volgari oggetti materiali.
Meditavo, in tal modo, senza stancarmi, per ore intere, avendo tutta la mia attenzione concentrata su una qualche puerile notazione sul margine ovvero nella pagina d'un qualsivoglia volume... restavo interamente assorto, durante una lunghissima parte del giorno, in un'ombra bizzarra che il sole moribondo disegnava obliquamente sui damaschi polverosi e sul tappeto tarlato... e mi perdevo, inoltre, intere notti, con l'occhio fisso al palpito della fiammella d'un lume, ovvero alle braci rosseggianti del camino... e ancora, per giorni e giorni, fantasticavo sul profumo dei fiori... o ripetevo, con esasperante monotonìa, una parola assolutamente banale... e la ripetevo tanto e poi tanto che essa finiva per spogliarsi totalmente d'ogni larva di umano significato... e così perdevo ogni senso del movimento, come pure dell'esistenza fisica, prolungando ostinatamente un ozio assoluto...
Tali furono le più ordinarie e le meno dannose fra le aberrazioni a cui si abbandonarono la mia mente e il mio spirito: non del tutto, certamente, eccezionali, e nulladimeno al di fuori d'ogni spiegazione o analisi. Ma io non voglio essere frainteso.
L'attenzione avida, morbosa e del tutto anormale che era in tal modo eccitata in me dai più comuni e futili oggetti, non va in alcun modo scambiata con quella disposizione dell'animo d'andar ruminando tra sé le proprie doglie, la quale è comune a tutto il genere umano ed in special modo alle persone afflitte da una vivace immaginazione. La mia non era, quindi, una condizione puramente esterna o una esagerazione di quella tendenza: essa, al contrario, si distingueva dall'altra così per l'origine come per l'intima essenza, le quali erano del tutto opposte. In quel primo caso, il sognatore - ovvero l'esaltato, se così si vuole definire - il quale ha l'interesse risvegliato, solitamente, da oggetti di non futile natura, perde di vista, appunto, cotesto interesse, col mezzo d'innumerevoli deduzioni o supposizioni che a quello si riferiscono, fintantoché, al termine d'una giornata trascorsa a sognare, la quale è spesso piena di piacere, scopre che l'incitamento - e cioè la causa prima e origine di tutte le sue divagazioni - è del tutto svanito e come straniato dalla mente.
Nel caso mio, al contrario, il punto di partenza, era costantemente frivolo anche se, alterato dalla mia fantasia sovreccitata, finiva con l'assumere, per riflesso, un'irreale consistenza. Seppure mi accadeva di farne, io ero pochissimo propenso alle deduzioni, e quelle poche in cui m'imbrogliavo tornavano con ostinazione, sempre e sempre, sull'oggetto di partenza come su di un centro magico d'attrazione. Tali meditazioni non erano mai piacevoli e, al dileguarsi di quelle chimeriche fantasie, anziché disperdersi anch'essa, la causa principale e originatrice di esse era la prima caratteristica del mio male. Le facoltà, in breve che venivano più facilmente eccitate in me, erano quelle dell'attenzione al contrario di quelle che sono eccitate nel sognatore comune, le quali sono puramente speculative.
Seppure non erano causa diretta nello stuzzicare quel mio male segreto, è fatale che i libri, per la loro stessa fantastica ed inconseguente natura, partecipassero, nella maniera più ampia, a svilupparne le peculiari caratteristiche. Io rammento bene, tra gli altri, il trattato ' De amplitudine beati regni Dei ' del nobile italiano Celius Secundus Curio, come pure il capolavoro di Sant'Agostino, ' La città di Dio ', e quello di Tertulliano ' De carne Cristi ', il cui paradossale pensiero, "Mortuus est Dei filius; credibile est quia ineptus est; et sepultus resurrexit; certum est quia impossibile est", assorbì per più settimane, in laboriose e sterili investigazioni, il mio povero tempo.
Appare in tal modo evidente come la mia ragione, messa a repentaglio dai più futili motivi, potesse paragonarsi a quella rupe di cui dice Tolomeo Efestione, la quale resisteva ad ogni umana violenza e al più orribile infuriare delle acque e dei venti, come una torre saldamente radicata nel terreno, epperò, non appena toccata dal fiore chiamato asfodelo, vacillava fin dalle scaturìgini.
Potrà sembrare ovvio, ad un superficiale pensatore, che la terribile alterazione prodotta dalla malattia sulle condizioni spirituali di Berenice, fornisse, a me, non poco incremento per una intensa meditazione, quella medèsima della quale ho potuto testé definire la natura soltanto in modo eccessivamente complicato e confuso. Non era così, invece. Negli intervalli che la mia malattia consentiva alla lucidità, quella sventura mi colmava di pena e come io prendevo a cuore, nel più partecipe dei modi, la compiuta rovina della bella e dolce Berenice, non mancavo, sovente, di riflettere con amarezza, al modo misterioso per il quale era avvenuto in lei un sì strano rivolgimento. Queste riflessioni, non partecipavano, però, dell'idiosincrasia del mio male ed erano tutte le medesime, anzi, che sarebbe avvenuto di fare alla media degli uomini, in circostanze analoghe. La mia infermità, fedele alla propria natura, faceva presa sui meno importanti - epperò più repentini - mutamenti che avvenivano nel fisico di Berenice e cioè sulla singolare e paurosa alterazione che subiva la sua personale identità.
Io ero sicurissimo, nei più radiosi giorni della sua bellezza, la quale era al di fuori d'ogni paragone, che non mi era mai accaduto d'amarla. Sono, infatti, in grado d'affermare, con tutta certezza, che per le strane anomalìe della mia natura, i miei sentimenti non furono mai originati dal cuore e le mie passioni ebbero sempre ad accendersi soltanto nel mio cervello. Nel grigio annuncio dell'alba, nel meriggio, traverso i foschi tralicci d'ombre della selva, e ancora, la sera, nel silenzio della mia biblioteca, Berenice m'era balenata davanti agli occhi ed io l'avevo veduta non già quale era da viva e col respiro sulle labbra, ma come una Berenice di sogno; non una creatura terrestre fatta di carne, l'astrazione, bensì, d'una tale creatura. E non una creatura da contemplare e ammirare: da studiare, invece. Non tema d'amore, infine, ma di astrusa e strampalata speculazione. Ed eccomi dinanzi a lei, in preda a un tremore violento e convulso, pallido al suo accostarsi, epperò dolente della sua condizione e sventura.
Poiché essa mi aveva lungamente amato, com'io potei, infine, rammentarmi e in un maligno istante, io le avevo anche parlato di sposarla.
S'avvicinava l'epoca fissata per le nostre nozze ed ecco, in una sera d'inverno, ma calda per la nebbia stagnante delle giornate care ad Alcione, io sedevo - credendo d'essere solo - nella mia biblioteca. E come sollevai gli occhi da un volume nel quale ero immerso, vidi Berenice, ritta innanzi a me.
Era la mia immaginazione sovreccitata, ovvero soltanto un effetto dell'atmosfera nebbiosa dei paraggi, o l'incerta penombra che regnava nella stanza, o ancora i drappi grigi dei quali ella s'era avviluppata la persona che rendevano tanto sfumato il suo profilo?
Non posso affermarlo con certezza. Ella non disse parola e io non aveva parimenti l'animo di rivolgerle in quel punto alcuna domanda. Un brivido ghiacciato mi corse giù per la schiena e, nel mentre che ero oppresso da una sensazione d'insoffribile ansietà, mi sentii penetrar l'animo d'una curiosità divorante. Mi abbattei su una sedia e rimasi per qualche istante immobile, con gli occhi sbarrati, fissi su di lei. La sua magrezza, ahimè, era estrema e non le appariva indosso alcun segno di ciò che essa era stata un tempo, neppure in uno solo dei suoi lineamenti. Il mio sguardo allucinato si posò infine sul suo volto. La fronte era alta, pallidissima e stranamente calma; i capelli che le ricoprivano, un tempo, ombreggiandole, le scarne tempie d'innumerevoli boccoli neri come l'ebano s'andavano trasformando, ora, in un biondo rossiccio la cui apparenza fantastica formava uno stridente contrasto con la mestizia cui era ispirata tutta la sua fisionomìa. Senza più vita e splendore, i suoi occhi sembrava non avessero più pupille, per modo ch'io distolsi il mio sguardo di su quella vitrea immobilità e lo posai sulle sue labbra sottili che apparivano, in quel punto, contratte. Ed esse s'aprirono e con un riso il quale apparve subito carico di mille significati, i denti della nuova Berenice furono lentamente rivelati alla mia vista. Così volesse il Cielo che io non li avessi mai veduti!... O che almeno, una volta veduti, io non fossi subito morto!
Il rumore d'una porta richiusa mi scosse da una sorta di torpore e, buttato uno sguardo in giro per la biblioteca, mi accorsi che mia cugina l'aveva abbandonata. Ma il mio cervello, eccitato e sconvolto, non sarebbe mai stato abbandonato dal bianco e sinistro aspetto di quei denti. La loro superficie non presentava alcuna screpolatura, non alcuna ombra il loro purissimo smalto, sul loro filo non era il minimo intacco! Era stato sufficiente quel suo breve riso a fissarmene per sempre l'immagine nella memoria. Ed io potevo vederli, ora che essa non era più dinanzi a me, assai più distintamente di quanto non li avessi già visti nella realtà...
quei denti, oh! quei denti... erano dappertutto, visibili davanti a me, ed io potevo perfino toccarli... lunghi erano e stretti, e terribilmente bianchi, nel mentre che le pallide labbra si contraevano sopra di essi, come nell'istante in cui mi si rivelarono per la prima volta. Fui nuovamente posseduto, così, dalla furia della mia monomanìa e fu invano che lottai per sottrarmi al suo strano ed irresistibile influsso. Ed arrivai a non essere capace di nutrire alcun altro pensiero che fosse estraneo a quei terribili denti. Provavo, per essi, un frenetico desiderio e, come se fosse assorbita da quella particolare contemplazione, sparì ogni altra materia d'interesse. Essi ed essi soli furono sempre, da allora, presenti all'animo mio e in quella loro singolare individualità divennero come l'intima essenza della mia vita spirituale. Io, per l'intanto, li andavo considerando in ogni loro aspetto, studiavo le loro caratteristiche e indugiavo a riflettere sulla loro conformazione, meditavo sulle alterazioni della loro pàtina e rabbrividivo al pensiero che potessero esser dotati di sensibilità e come d'una facoltà di sentire ed ancora, sebbene fossero privi delle labbra, d'una capacità di espressione morale. Furono dette molte cose a proposito di Mademoiselle Sallé, "que tous ses pas etaient des sentiments", e, di Berenice, io credetti sul serio QUE TOUS SES DENTS ETAIENT DES IDEES. DES IDEES!... Ecco lo sciocco pensiero che mi annientava! DES IDEES!... Era forse solo per questo che io ero portato fino a idolatrarti! Io sentivo che soltanto se li avessi posseduti avrei ritrovato la mia pace, sarei tornato sullo smarrito sentiero della ragione.
E la sera si chiuse in tal modo su me e vennero le tenebre, soggiornarono e poi se ne andarono e spuntò un altro giorno e nuovamente le notturne ombre si raccolsero e ancora s'addensarono, ma io restavo seduto, senza muovermi, solo, nella mia stanza, ed ero assorto completamente a meditare, nel mentre che il terribile fantasma dei denti di Berenice manteneva su di me la sua sinistra influenza e volteggiava intorno a me, variando in una con l'alternarsi della luce e dell'ombra.
Ma tra quei sogni avvenne, a un tratto, che irrompesse un grido, simile a quello di un'anima sopraffatta dal terrore e, dopo una pausa, avvenne che gli tenesse dietro un suono d'afflitte e meste voci e di sordi, dolorosi e affannosi lamenti. Mi drizzai, d'un subito, in piedi, e spalancata una delle porte della biblioteca, vidi nell'anticamera una fante che, sciogliendosi in lacrime, mi narrò come Berenice non fosse più.
Essa era stata colpita, all'alba, da un attacco di epilessia.
Giunta la sera, il sepolcro attendeva l'ospite sua. Ed ogni cosa era preparata per la funebre cerimonia.
Ero nuovamente seduto nella mia biblioteca ed ero solo. E ancora credevo d'essermi desto da un sogno angoscioso e non bene chiaro.
Sapevo che la notte era, in quel punto, al suo mezzo, e che Berenice era stata inumata al calar del sole. E nondimeno, dei paurosi istanti ch'erano seguiti, non riuscivo a ricordar nulla.
La mia memoria era piena soltanto del terrore, il quale era tanto più orribile in quanto era vago e in quanto, del pari, esso era ambiguo. Una paurosa pagina della mia vita era stata scritta con oscure e indecifrabili memorie di raccapriccio. Tutti i miei sforzi intesi a decifrarla furono vani, epperò, di tanto in tanto, come lo spirito d'un suono svanito, il grido penetrante d'una voce femminile sembrava risuonare alle mie orecchie. Avevo fatto qualcosa. Ma che cosa? Me lo chiedevo ad alta voce, e sempre l'eco della stanza bisbigliava, in risposta, "che cosa?".
Sul tavolo accanto a me, ardeva un lume e vicino ad esso era una piccola scatola. La sua foggia non presentava nulla di notevole ed io l'avevo già veduta altre volte, prima d'allora, poiché essa era appartenuta al medico della mia famiglia. Ma quale poteva essere la ragione per cui essa era là, sul mio tavolo? E sopra tutto, perché rabbrividivo, nel guardarla? Erano cose, per certo, a cui non metteva conto di far caso e i miei occhi caddero, così, sulla pagina aperta d'un libro, su una frase che in essa era stata sottolineata. Erano alcune semplici e pur tuttavia singolari parole del poeta Ebn Zaiat: "Dicebant mihi sodales, si sepulcrum amice visitarem, curas meas aliquantulum fore levàtas". Ma perché, nel mentre che io scorrevo, i capelli mi si drizzarono sul capo e il sangue mi si agghiacciò nelle vene?
Ed in quel punto s'udì un lieve picchiare alla porta della biblioteca e un famiglio si fece innanzi, in punta di piedi, ed era più pallido che l'ospite di una tomba. Il suo occhio era stravolto dal terrore e la sua voce era tremante, rauca, bassissima. Che cosa disse? Udii solo delle frasi rotte. Egli raccontò d'un urlo selvaggio che aveva incrinato la silenziosa pace della notte e come l'intera servitù si fosse adoperata a ricercare nella direzione da cui il grido sembrava scaturito e la sua voce, a questo punto, si fece più chiara e penetrante e mi sussurrò all'orecchio d'una tomba violata e d'una spoglia sfigurata cui era stato tolto il sudario... e d'essa che ancora respirava, che ancor palpitava... che era ancor viva!
Puntò un dito sui miei abiti. Essi erano lordi di fango e di sangue. E mi prese dolcemente una mano, come per mostrargliela, ed io vidi che su di essa s'erano impressi i segni di unghie umane. E poi richiamò la mia attenzione su di un oggetto poggiato al muro.
Mi volsi a guardarlo: era una vanga.
Scattai, allora, in piedi e mi diressi urlando verso la tavola: e afferrai la scatola che era vicina al lume. Ma non riuscii ad aprirla e poiché tremavo in tutte le giunture, essa mi scivolò dalle mani e cadde in terra, pesantemente, e si ruppe in pezzi e da essa, con uno strepito che risuonò per tutta la casa, rotolarono fuori degli strumenti di chirurgia dentaria e ancora, mescolati a quelli, trentadue piccole bianche cose simili all'avorio, ed esse si sparpagliarono qua e là, per terra.





Metzengerstein
L'orrore e la fatalità hanno avuto a che fare in tutti i secoli.
A che mettere, allora, una data nella storia che sto per raccontare? Mi basta appena premettere che, all'epoca di cui parlo, sussisteva, nel centro dell'Ungheria, una ferma credenza nelle dottrine della metèmpsicòsi. Di tali dottrine per esse stesse, della loro inattendibilità ovvero della loro probabilità, a me non interessa dire e non dirò nulla. Io posso affermare, nondimeno, che gran parte di tutta la nostra incredulità - secondo che dice La Bruyère, il quale attribuisce tutte le nostre disgrazie a quest'unica causa - ' vient de ne pouvoir être seuls '.
Ma alcuni punti di quella superstizione ungherese toccavano quasi l'assurdo. I Magiari differiscono essenzialmente dalle autorità Orientali, per ciò che riguarda tale argomento. (Nota dell'autore:
Il Mercier nel suo ' L'an deux milles quatre cent quarante ', sostiene, con decisione, le dottrine della metèmpsicòsi, e J.
d'Israeli afferma che non esiste sistema semplice come quello e che tanto, come quello, ripugni all'intelligenza. E persino il colonnello Etham Allen, il ' Green Mountain Boy ', passa per essere stato un convinto metèmpsicosìsta). E, tanto per fare un esempio, citerò le parole d'un acuto e intelligente parigino:
"L'âme ne demeure qu'une seule foi dans un corps sensible. Ainsi un cheval, un chien, un homme même, ne sont que la rassemblance illusoire de ces êtres".
Le famiglie Berlifitzing e Metzengerstein erano state in discordia per secoli. Non s'erano mai viste due casate tanto illustri reciprocamente inasprite in una inimicizia addirittura mortale.
Quest'odio poteva aver avuto origine dalle parole d'una antica profezia: "Un grande nome cadrà da una terribile altezza, allorché, simile a un cavaliere sul proprio cavallo, la mortalità di Metzengerstein trionferà sull'immortalità di Berlifitzing".
In sé e per sé, è indubitato che tali parole contenessero poco senso. Ma cause ancor più volgari di quelle hanno condotto - e senza risalire troppo in alto nel tempo - a conseguenze ugualmente gravide d'avvenimenti. E d'altro canto i due domìni, ch'erano confinanti, avevano esercitato, a lungo, un'influenza rivale nelle vicende d'un tumultuoso governo. Vicini tanto vicini com'essi erano, raramente sono amici, e gli abitanti del castello di Berlifitzing potevano spingere i loro sguardi fin dentro le finestre del palazzo Metzengerstein dove il dispiegamento d'una magnificenza feudale era inadatto a calmare i sentimenti irritabili dei Berlifitzing che erano di meno antica e meno ricca origine. Perché meravigliarsi, allora, se le parole della surriferita predizione - le quali non suonano, per questo, meno bizzarre - avevano potuto determinare e tener desta la rivalità tra due famiglie le quali vi erano già predisposte dalle continue istigazioni d'una gelosìa ereditaria? Se qualcosa essa stava a significare, la predizione prometteva il trionfo finale alla parte più cospicua ed è quindi naturale che fosse rammentata con una cotale animosità da quella parte, fra le due, che era più debole e meno influente.
Wilhelm, conte di Berlifitzing, malgrado il suo alto lignaggio, all'epoca dell'odierno racconto era un vecchio carico di malanni e per metà svanito di mente, il quale poteva solo essere distinto da una radicata antipatia personale ai danni della casata rivale e da un amore così appassionato per i cavalli e la caccia che nemmeno le infermità fisiche e l'età avanzata, come pure la debolezza del suo cervello, potevano vietargli di correre, ogni giorno, i pericoli che quegli esercizi comportano seco.
E Frederick, d'altro canto, barone di Metzengerstein, non aveva ancora raggiunto la maggiore età. Il ministro G., suo padre, era morto giovane e sua madre, Lady Mary, aveva raggiunto il marito con breve intervallo. Frederick aveva, allora, diciott'anni.
Diciott'anni spesi in una città, in una vita collettiva, non sono un grande periodo di tempo. Ma nella solitudine, nella magnifica e solenne solitudine di un antico e aristocratico ritiro, il pendolo oscilla con più profonda e significativa maestà.
In seguito ad alcune particolari modalità dell'amministrazione paterna, non appena il suo avo ebbe a morire, il giovane barone entrò in possesso dei suoi vasti domìni. Prima di quel tempo s'era vista raramente, in Ungheria, tanta e così nobile proprietà nelle mani d'un solo. I castelli erano innumerevoli e il più splendido e il più vasto era il palazzo di Metzengerstein, tanto che il limite delle terre intorno non era mai stato ben definito. Il parco principale, ad ogni modo, abbracciava un circuito di cinquanta miglia.
La successione di persona così giovane e dal carattere, pertanto, assai ben conosciuto, non lasciava supporre nulla di preciso attorno alla probabile condotta ch'egli avrebbe seguita. E questa, per la verità, oscurò la fama di Erode nello spazio d'appena tre giorni superando, in magnificenza, le speranze dei suoi più entusiasti ammiratori. Orgie vergognose, flagranti perfìdie, tradimenti, inganni, atrocità inaudite resero ben presto noto ai suoi trepidanti vassalli che nulla, né la loro servile sottomissione, né alcun probabile scrupolo di coscienza da parte del medesimo signore, avrebbero potuto proteggerli, in qualche modo, dagli artigli impietosi di quel piccolo Caligola. La notte del quarto dì, furono viste bruciare delle scuderìe del castello di Berlifitzing. E così anche il delitto di quell'incendio andò ad aggiungersi, secondo l'unanime opinione dei vicini, alla orribile lista degli atroci misfatti del barone. Quanto al giovane gentiluomo, egli se ne stette, per tutto il tempo che durò il tumulto provocato da quell'accidente, assorto in apparente meditazione, seduto in una stanza vasta e solitaria, nella parte più remota ed elevata del palazzo avìto dei Metzengerstein. La tappezzeria ricca, ancorché sbiadita, che pendeva malinconicamente alle pareti, rappresentava i ritratti fantastici e maestosi di mille antenati illustri. Prelati, colà, riccamente parati d'ermellino, dignitari pontifici familiarmente assisi con l'autocrate o il sovrano, opponevano il loro veto ai capricci d'un re temporale e, col favore del potere, in mano loro, della supremazia papale, trattenevano il ribelle scettro del Gran Nemico. Altrove le cupe smisurate stature dei principi di Metzengerstein, i cui muscolosi cavalli da guerra pestavano le spoglie dei nemici caduti, scuotevano, per la loro feroce espressione, anche i nervi più solidi. Ed ancora, simili a cigni, le voluttuose immagini delle dame dei tempi andati fluttuavano negli intrichi d'una danza fantastica, intente all'accento di melodie immaginarie.
Ma nel mentre che il barone prestava orecchio - ovvero sembrava prestarlo - al baccano ognor crescente che veniva dalle scuderie dei Berlifitzing, - e probabilmente rifletteva attorno a un nuovo piano, più risoluto e ancora più audace - i suoi occhi ebbero a posarsi involontariamente sulla figura d'un enorme cavallo, d'un colore innaturale, il quale, secondo la leggenda raffigurata nell'arazzo, sembrava appartenere a un antenato saraceno della famiglia rivale. Il cavallo restava immobile come una statua, nel primo piano del quadro, nel mentre che, poco discosto, il suo cavaliere periva, sotto il pugnale d'un Metzengerstein.
Un'espressione diavolesca increspò le labbra di Frederick, non appena egli s'avvide della direzione ch'aveva presa il suo sguardo. Pure non distolse gli occhi e non poté, al contrario, liberarsi dall'oppressione di un'ansia che gli era piombata pesantemente addosso come un drappo mortuario e gli era difficoltoso connettere le sue incoerenti sensazioni materiate di sogno, con la sicurezza d'esser desto. E più indugiava in quella contemplazione e più avvertiva che quella magia lo andava possedendo, e più ancora gli sembrava impossibile sottrarre lo sguardo dal perfido fascino di quell'arazzo. E come il baccano esterno salì improvvisamente di ferocia, egli spostò, con uno sforzo, la propria attenzione sul viale che, dal palazzo, conduceva fino alle scuderie della proprietà.
"No", disse il barone voltandosi di scatto. "E' morto?".
"Certamente, signor mio e nondimeno io ritengo che, per voi, ciò non costituisca quel che si dice una cattiva nuova".
Un sorriso illuminò il volto del barone.
"E come è morto?" s'affrettò a chiedere.
"Nel mentre che s'affannava a tentar di salvare alcuni suoi favoriti cavalli da caccia, egli è miseramente perìto tra le fiamme".
"Dav... ve... ro...?" esclamò il barone al modo stesso che se si andasse convincendo per gradi della veridicità d'una sua misteriosa supposizione.
"Davvero!" disse il vassallo.
"Orrore!" concluse il barone ma con calma, quasi dimentico del significato di quella parola; e rientrò tranquillamente nel suo palazzo.
A partir da quel giorno, un notevole mutamento si verificò nella condotta esteriore del giovane e dissoluto barone Frederick von Metzengerstein. Egli s'era comportato, per la verità, in modo da provocare il disappunto di molte speranze e da sconcertare i disegni di più d'una madre intrigante. Ora, per contro, le sue abitudini, finirono coll'uniformarsi in tutto e per tutto a quelle della società aristocratica del vicinato. Egli, così, non fu più visto fuori dei suoi domìni e non coltivò del pari alcun amico nel vasto mondo della società conterranea, ove non si voglia calcolar per un amico quel sovrannaturale e impetuoso cavallo di fiamma ch'egli non smetteva mai di montare dal giorno dell'incendio.
Dalle famiglie confinanti, tuttavia, continuarono a pervenirgli inviti d'ogni sorta. "Sarà così gentile il signor barone d'onorare la nostra festa con la sua presenza?"; "Sarà così gentile il signor barone da prendere parte alla nostra caccia al cinghiale?"; "Metzengerstein non va a caccia"; "Metzengerstein non può accettare", erano le sue brevi ed altere risposte.
Il ripetersi di tali ingiuriose ripulse non poté, alla lunga, essere sopportato da quella altera nobiltà. Gli inviti divennero, così, meno cordiali, meno frequenti e, a poco a poco, cessarono del tutto. E fu intesa la vedova del defunto conte Berlifitzing esprimere il voto che "il barone potesse esser costretto a starsene in casa, dal momento che disprezzava la compagnia dei suoi uguali, proprio quando avrebbe desiderato di non trovarvicisi e ancora, dal momento che a quella di coloro preferiva la compagnia d'un cavallo, a cavalcare quando non ne aveva nessuna voglia". La qual cosa non era, certamente, che una volgare esplosione del rancore ereditario e dimostrava soltanto come le parole che noi usiamo rischiano di perdere ogni loro significato se noi vogliamo a ogni costo conferir loro una estrema energia.
E tuttavia le persone caritatevoli attribuivano il mutamento della condotta del giovane gentiluomo al suo più che naturale dolore di figlio - ahimè - troppo presto privato dei suoi genitori. E così facendo, davano a vedere, nondimeno, d'aver dimenticato il suo feroce contegno e la sua indifferenza nei giorni che seguirono immediatamente quella sua duplice perdita. Vi fu taluno che lo accusò d'essersi forgiata un'idea esagerata della propria importanza e della propria dignità, e altri ancora - e tra questi converrà mettere il medico della famiglia - i quali non dubitarono di attribuire il tutto a una sorta di morbosa malinconìa ereditata dai suoi avi. Torbide insinuazioni, oltre a queste, e d'ancor più dubbia natura, correvano, nel frattempo, sulle bocche dei pettegoli.
Il perverso attaccamento, per la verità, del barone per la sua nuova cavalcatura - il quale pareva aumentare di forza e di passione ogniqualvolta l'animale dava nuova prova e incentivo alle sue sfrenate e demoniache tendenze - fu giudicato, da tutte le persone ragionevoli, al pari d'una orripilante tenerezza contro la natura. Al rosseggiar del meriggio e nelle morte ore notturne, col bel tempo e con la tempesta, sia ch'egli fosse ammalato o in salute, il giovane Metzengerstein sembrava inchiodato alla sella del suo gigantesco corsiero del quale l'audacia senza freni s'accordava troppo bene al suo proprio carattere.
E si dettero, ancora, talune circostanze le quali, riferite agli avvenimenti più recenti, crearono un'atmosfera mitica e soprannaturale attorno alle manie del cavaliere e alle qualità della bestia. Fu misurato meticolosamente lo spazio che questi poteva superare con un suo salto e fu trovato che esso era assai più ampio di quanto non fosse supposto dai più esagerati. Il barone, inoltre, non aveva dato all'animale nessun nome particolare, mentre tutti gli altri cavalli della sua scuderia ne avevano uno. La scuderia per quell'eccezionale corsiero era stata ricavata a una certa distanza dalle altre e nessuno mai, eccettuato il barone, aveva osato varcarne la soglia, foss'anche per attendere alla cura e alla pulizia della bestia. E fu inoltre notato che nessuno dei tre inservienti o palafrenieri i quali erano riusciti, a mezzo d'una cruda che terminava in un cappio, a impadronirsi del corsiero in fuga dall'incendio del vicino castello di Berlifitzing, era in grado di affermare con sicurezza d'aver poggiato le mani, nel corso di quella lotta perigliosa o in alcun altro momento successivo, su alcuna parte del corpo dell'animale. Il fatto che un cavallo di nobile razza e di generoso impeto dia prove d'una intelligenza affatto particolare non è cosa che possa destare un interesse del tutto eccezionale e nondimeno, per quel che concerne il caso del cavallo di Metzengerstein, si verificarono circostanze tali da riuscire ad impressionare anche coloro che si dicevano scettici e indifferenti di professione. E di fatto si ricordava di una volta che la bestia aveva fatto retrocedere un'intera folla in preda al terrore, la quale un istante prima gli si stringeva attorno per ammirarlo, solo a causa dell'impressionante profondità del pensiero adombrato nel terribile pestar del suo zoccolo, e d'una altra volta ancora in cui il giovine Metzengerstein s'era volto a riguardare dalla parte opposta, sbiancato in viso, per sfuggire a una subitanea occhiata scrutatrice del cavallo che pareva guardarlo con un'espressione di serietà e quasi d'umanità.
Nessuno, tra i servi, sollevò mai qualche dubbio sull'affezione del tutto eccezionale che il giovine gentiluomo portava al cavallo per le sue brillanti qualità, nessuno ove si eccettui un insignificante servitorello le cui difformità erano sempre tra i piedi delle persone e alle cui opinioni non era il caso d'attribuire soverchia importanza. Egli aveva la tracotanza d'affermare - seppure il suo parere merita d'essere rammentato - che il suo padrone non era mai salito in sella senza un inesplicabile e quasi impercettibile brivido e che, al ritorno dalle sue lunghe cavalcate, non mancava di tradire, ogni giorno, un'espressione trionfante di malvagità la quale gli tendeva tutti i muscoli facciali.
Una notte d'uragano, Metzengerstein si destò all'improvviso da un sonno pesante, uscì come impazzito dalla sua stanza, salì in gran furia sul suo cavallo di fuoco e scomparve in un balzo negli intrichi della selva. L'avvenimento era così comune che nessuno vi pose mente; epperò i servi attesero il ritorno del barone con viva ansietà poiché, qualche ora dopo che egli era scomparso, i mirifici edifizi del palazzo di Metzengerstein avevano cominciato a scricchiolare e a vacillare dalle fondamenta sotto l'azione d'un fuoco improvviso e irriducibile il quale ricopriva le costruzioni d'una massa livida e spessa di fumo. E nondimeno, allorché la gente se ne avvide, le fiamme avevano già menata innanzi di tanto la loro opera distruttrice che qualsiasi sforzo per salvare una parte soltanto delle costruzioni apparve palesemente vano, e così gli accorsi se ne stettero attoniti là intorno, preda d'uno stupefatto, se non apatico silenzio. Ma un oggetto nuovo e terribile attrasse ben presto l'attenzione della moltitudine e mostrò come sia molto più intenso l'interesse che può fomentare, in una folla, la contemplazione d'una umana agonia che non il più orripilante spettacolo offerto dalla materia inanimata.
Sul lungo viale di querce vetuste che portava, dalla selva, all'ingresso del palazzo di Metzengerstein apparve all'improvviso un corsiero, montato da un cavaliere scapigliato e con le vesti in disordine, il quale spiccava tali balzi da sfidare, per l'ìmpeto, perfino il Dèmone dell'uragano.
Il cavaliere - era evidente - non riusciva a frenare quella corsa impazzita, ed appariva, dall'espressione atterrita della sua faccia e dal convulso agitarsi del suo corpo, ch'egli stava sostenendo uno sforzo sovrumano. E purtuttavia, all'infuori d'un unico grido - e come fu inteso rintronare! - che gli sfuggì dalle labbra, lacerate dai suoi stessi morsi che la intensità del terrore gli suggeriva sempre più frequenti, non fu udito alcun suono che provenisse da lui.
Un solo istante ancora e lo scalpitìo degli zoccoli stridette più alto e acuto che il ruggito delle fiamme e l'urlìo del vento. Un solo istante ancora e, dopo aver superato, in un sol balzo, il fossato e la soglia, il cavallo si slanciò su per le scale del palazzo, prossime a crollare, col suo cavaliere in groppa, nitrendo alto fra i turbini di fuoco.
E all'improvviso, allora, s'acquietò la furia dell'uragano e sopravvenne una tetra calma di morte. Salì una candida fiamma e avviluppò tutto il palazzo come un sudario e, vampando su per l'aria tranquilla, dardeggiò in lontananza una luce soprannaturale. In quello stesso istante, una spessa nube di fumo s'appesantì sull'antica costruzione e prese la forma d'un gigantesco cavallo.








 


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Buona lettura folks...


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